Dettaglio nascosto: il signore nell’anello.

Trafalgar Square. National Gallery. Piano 2. Sala 56. Tutti concentrati sul ritratto fiammingo di Jan Van Eyck dei Coniugi Arnolfini: marito e moglie per la mano centrati in sala e centrati nel quadro. Colorati, ben posati e raccontati da innumerevoli dettagli nascosti sparsi, difficili da notare tra uno spintone e l’altro.

“Bellissimo, maestosissimo e un sacco di –issimo! Ma c’è troppa gente!” e te ne vai alla ricerca di qualcosa che non abbia ronzii e spintoni intorno.

“Ma le cose che non hanno ronzii e spintoni intorno non sono belle abbastanza!”

Coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck, 1434 circa, National Gallery, Londra

Non è vero! Almeno non nella sala 56 della National Gallery. C’è un quadro proprio lì accanto che puoi scrutare da solo e in santa pace.

“Arnolfini di qua e Arnolfini di là” tutti lo conoscono e tutti lo vogliono. I protagonisti di sala 56 del secondo piano.Ma la donna esposta a pochi centimetri da Van Eyck ha qualcosa che la Signora Arnolfini non ha. L’artista, anche lui fiammingo, è Robert Campin che intorno al 1435 dipinge Ritratto di Donna.

Ritratto di donna, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

Chi è la donna? Anonima. Senza cognome. Nessuno stemma e nessun panno sfarzoso. Solo un velo bianco e pesantissimo con qualche spilla da balia in vista che la tiene imbacuccata scoprendole il viso. Un viso paffutello, giovane e pulito. Con naso a punta, labbra a cuore, pupille luccicanti e sguardo serio e concentrato verso qualcosa che Campin mostra solo a lei. Lo sfondo è nero e il suo viso pallidissimo.

E chi è l’uomo incorniciato accanto? Probabilmente suo marito. Anche lui anonimo, sbarbato con un turbante rosso in testa o meglio chiamato capperone, su sfondo nero, meno pallido e con lo sguardo concentrato anche lui verso qualcosa che non puoi vedere.

Ritratto di uomo, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

La didascalia non si esprime più di tanto e nemmeno la descrizione sul sito web del museo: L’uomo e la donna di Campin erano un dittico (il motivo di finto marmo presente sul retro di entrambi i primi piani lo suggerisce), adesso separato in due quadri messi uno accanto all’altro. La tecnica è olio su tavola. Le dimensioni 40×28 cm. La data di esecuzione 1435 circa…

Ma quindi cosa c’è di speciale? Che cos’ha questa donna senza un nome che la bellissima signora Arnolfini non ha?

Ha un anello sull’anulare sinistro. Un anello, o forse una fede d’oro con un rubino incastonato.

E quindi?

E quindi dentro al rubino c’è un ritratto. Minuscolo. Visibile solo con una lente d’ingrandimento. Forse il più piccolo ritratto esistente.

Il ritratto di un uomo, su un rubino, sull’anulare sinistro… è il marito sicuramente! E invece no. Il marito è sbarbato, mentre l’uomo ritratto nell’anello è un capellone barbuto e baffuto.

Ritratto di donna, dettaglio autoritratto, Robert Campin, 1435 ca, National Gallery, Londra

Eppure è strano. Perché il rubino nella storia dell’arte del quattro e cinquecento è il simbolo matrimoniale della fertilità.

Quindi chi è il capellone baffuto? L’amante?

Non si sa. Non si è ancora scoperto. Alcuni studiosi pensano possa essere l’autoritratto dell’artista perché descritto come battagliero ribelle e fumino nei pochi frammenti biografici rimasti, senza darne descrizioni però sull’aspetto fisico. E non per forza i “fumini” dell’epoca hanno barba, baffi e capelli.

Ma se fosse proprio lui, cosa vuol dire? Vuol dire che Campin è l’amante della donna paffutella con la bocca a cuore, sposata con lo sbarbato accanto a lei? Un autoritratto minuscolo così che il marito non lo vedesse, ma lei lo potesse tenere per se’?

O magari non c’è nessuna storia d’amore e nessun tradimento spenellato sotto al naso. Magari è solo una firma d’artista un po’ più originale.

O magari non è nessuna di queste ipotesi molto blande, seppur belle fossero vere.

Merda d’artista, Piero Manzoni

Merda d’artista. Contenuto netto gr 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.

Merda d’artista, 1961, Museo del ‘900 (n.80), Milano

Sono in realtà 90 vecchi barattoli di carne in scatola che Manzoni compra, svuota e riempie con del gesso. Nessuno in mezzo al pubblico lo vede perché le scatolette sono chiuse. Sull’etichetta firma ripetutamente il suo nome e scrive in grande Merda d’artista, prendendo in giro non solo chi la guarda ma anche l’arte stessa. L’arte che negli anni ’60 comincia a cambiare e diventa la cosiddetta ‘arte concettuale’, movimento artistico in cui l’espressione è sopra la costruzione e il concetto è sopra l’oggetto. Perché possibile che una scatoletta vecchia di carne che si spaccia per essere merda non sia merda per davvero, ma valga tanti tanti soldi? e possibile che così tante persone la amino? Manzoni lo dimostra. Dimostra come l’arte sia cambiata per sempre e il mercato insieme a lei. Un mercato disposto a comprare qualsiasi cosa a cifre folli purché abbia la firma di chi conta addosso. Chi è che conta? L’artista. La sua firma. Il suo pensiero. Che prende in giro tutti quanti e per questo a tutti piace.

Fiato d’artista, 1960

In un’altra opera, Fiato d’artista (1960), Manzoni ripete il concetto di decadimento usando il suo fiato. Ma spreca fiato per cosa? Per dei palloncini che vogliono somigliare a corpi femminili. Prende una modella, bella, ben disposta e con un bel sorriso in vista. La mette su una sedia ferma e immobile e lui soffia e gonfia e sbuffa dentro a un palloncino. Vuole ritratte la donna così come la vede lui: un palloncino gonfio. Nella speranza che non sia solo questo. Poi mette il palloncino a forma di palla, di pera o di mela, a seconda di come gli viene, su un piedistallo come fosse una statua. Strano ma vero, un’altra opera che vale tanti soldi.

Sculture viventi, 1961

Base Magica, 1961

C’è un altro modo però con cui tratta il corpo femminile ed è quello di Sculture viventi (’61). Durante le riprese per il Filmgiornale SEDI a Milano, prende alcune modelle nude e inizia a marchiarle come mucche scrivendo il suo nome e cognome in qualche parte del corpo. In quest’opera si ripete il concetto di ripetitività, di firma autorevole. In quest’opera è l’essere vivente che diventa oggetto o forse il contrario. Anche con Base Magica (’61) fa un po’ la stessa cosa. prende una base di legno aggiungendo magica nel titolo. Traccia due impronte di piedi sopra la scatola invitando chiunque a salirci sopra così che tutti possano diventare statue viventi e opere d’arte per un minuto. E forse è proprio questa una tra le varie capacità dell’artista. Prendere in giro il pubblico facendolo sentire importante per un minuto.

La sposa messa a nudo dai suoi scapoli di Duchamp

La Mariée mise à nu par ses célibataires, Marcel Duchamp, 1915-’23, Philadelphia Museum of Art

Un’opera complessa. Si dice che sia tra le più complesse del Novecento. Duchamp ha impiegato circa dieci anni per farla. Taccuini, disegni, bozzetti. Ma in realtà è molto semplice. Perché non le ha dato un significato, ma solo un titolo. La sposa messa a nudo dai suoi scapoli/La Mariée mise à nu par ses célibataires. E sia la sposa che gli scapoli sono rappresentati su due grandi lastre di vetro trasparente con lamine di metallo, polvere e fili di piombo. Due lastre ben divise tra loro. Ognuna al posto suo.

La Mariée mise à nu par ses célibataires, disegno dettaglio (la sposa)

In alto la sposa. Una sposa che va un po’ interpretata, immaginata. Nuda. Immobile. Spogliata. Emana una scia, una nuvola con tre riquadri che forse rappresentano i suoi pensieri, la natura, l’elevazione verso l’alto. Qualcosa di sottile, come la sua sagoma: due gambe secche secche attaccate a un bacino un po’ più largo. Qualcosa di fragile.

La Mariée mise à nu par ses célibataires, disegno dettaglio (gli scapoli)

In basso invece ecco gli scapoli. Manichini, abiti, divise. Qui il corpo manca. Ci sono solo dei vestiti a rappresentarli che sembrano uniformi. Il corazziere, l’inserviente, il barista, il becchino, il capostazione, il poliziotto, … Categorie (maschili) e non individui, che girano intorno a una giostra. Una giostra in movimento a differenza dell’immobilità che appare nella lastra di sopra. Avanti e indietro avanti e indietro come farebbero i loro genitali su un letto. Degli automi privi di identità personale e fisica che si muovono non accanto a una nuvola, ma su una giostra che guida la macchina accanto. Una macinatrice. Macinare che significa ridurre in polvere, in frammenti. E cosa macina? Della cioccolata. E cosa rappresenta la cioccolata? Probabilmente il desiderio.

Così Duchamp rappresenta un rapporto tra uomo e donna emblematico, o meglio enigmatico. Un rapporto tra una sposa in alto senza il suo vestito e degli scapoli in basso senza i loro corpi su sue lastre di vetro trasparenti divise tra loro. Nuvole sopra e macchine sotto. Elevazione ed erotismo. Desiderio. Un desiderio frantumato da una macinatrice.

E caso vuole che il vetro cade in frantumi durante uno spostamento nel 1926.

Duchamp non si scompone. Lascia che l’opera diventi quello che le accade. Lascia che si formi della polvere sul vetro frantumato per poi appiccicargliela sopra in modo tale che non vada più via. Il caso si può forse dire che si sia adeguato all’opera perfettamente.

E quindi alla fine di tutto, cosa rappresentano queste lastre di vetro? Un rapporto umano rotto? Un simbolo femminista creato da un artista con il sesso opposto? O il rapporto tra l’uomo e la materia, l’oggetto, la macchina? O forse niente di tutto questo.

La risposta di Duchamp non è mai stata data. Questa è solo una delle tante interpretazioni date.

“L’opera si fa da sé” dice, “grazie all’artista e grazie a chi la guarda”.

La Venere di Savignano. Tra i più importanti ritrovamenti dell’arte preistorica.

Cos’è quest’oggetto appuntito? È uno schiaccianoci? No. Ma c’è chi per un po’ di tempo lo ha visto così.

Venere di Savignano, Reale Museo Nazionale Preistorico Etnografico, Roma

In realtà è una statuetta che rappresenta una Venere. La Venere oggi chiamata di Savignano perché rinvenuta proprio nei pressi di questa località vicino Modena nel 1925. Ha origini antichissime. Neolitiche o addirittura Paleolitiche.

La sua forma ha un sedere sporgente, una pancia sporgente e un seno sporgente. Piedi e testa a punta come fossero due coni alle sommità del corpo. Il viso non inciso, le braccia son leggermente accennate, le curve invece ci sono, prorompenti in 22 centimetri di materiale che la compongono.

Eppure c’è chi non vede.

Olindo Zambelli era un operaio che negli anni ‘20 del Novecento stava scavando le fondamenta di un edificio nei pressi di Savignano, la proprietà del “Signor Rossi Vincenzo detto Bandiera”. Un giorno durante i lavori trova un ammasso di pietra simile a un sasso e se lo porta a casa. Di sassi durante gli scavi ce ne sono molti eppure lui decide di portarsi a casa proprio quello o forse anche altri, ma non è dato sapere. Guardando per bene la forma non nota nessuna linea, nessuna incisione, solo un ammasso di pietra a punta. Così lo porta con sé, lo mette sopra al camino di casa e mentre mangia qualche noce lo utilizza per schiacciarne il guscio. Il suo schiaccianoci personale. Ogni giorno utilizza un oggetto dal valore oggi inestimabile per schiacciare le sue noci. La leggenda dice che lo mostra prima a qualcuno: a sua moglie, al segretario comunale e a persone di fiducia… ma nessuno vede niente.

E allora chi è che salva la bella statuina? Si chiama Giuseppe Graziosi, scultore abbastanza noto all’epoca che viene a sapere del ritrovamento e decide di comprarlo intuendone il valore. Parla con l’operaio e lo convince ad avere la Venere in cambio di due quintali d’uva. Olindo Zambelli prende l’uva e la consegna senza problemi.

La statuina viene così ceduta a Ugo Antonielli, direttore del Reale Museo Preistorico Pigorini a Roma, il quale analizza l’oggetto e lo espone come “la più bella per esecuzione e la più grande fra quante del genere erano state finora ritrovate.”

Oggi la Venere schiaccianoci è visibile a tutti. A chi ha gli occhi per vedere qualcosa a prescindere dal contesto in cui si trova. E viene riconosciuta come uno dei più importanti ritrovamenti italiani di arte preistorica.

 

 

 

 

Rosachiara Pardini

 

 

Il Monumento ai non eletti di Nina Katchadourian

Nina Katchadourian (Stanford, 1968)

Stati Uniti. Al posto dei nani da giardino ci sono i cartelli elettorali che quest’anno tengono il nome di Biden o Trump.

Nina Katchadourian, artista nata a Stanford, California, nel 1968, espone anche quest’anno la sua opera Monumento ai non eletti, o meglio Il monumento dei perdenti.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Ma cosa sono intanto i cartelli da giardino negli Stati Uniti?

Sono dei cartelli venduti dalle campagne elettorali ai cittadini che presentano come logo il nome del candidato alle elezioni presidenziali. Il cittadino compra il cartello con il nome del candidato che preferisce, a un prezzo che varia dai 10 ai 15 dollari e con una dimensione che varia in base alle regole di ciascun Stato, e lo pianta nel proprio pezzo di prato per mostrare ai vicini di casa e ai passanti interessati la propria scelta.

È una tradizione che va avanti da sempre nel Paese. La prima volta che appare è stato nel 1820 per le elezioni di John Quincy Adams e man mano si è diffusa sempre di più.

“Sempre di più, ma mai come quest’anno. Quest’anno c’è un forte bisogno da parte degli americani di esprimere il proprio pensiero” dice l’artista.

 

Nina Katchadourian cosa fa? Non spiattella al pubblico chi preferisce tra un concorrente e l’altro, ma mostra semplicemente i fatti come stanno: le scelte di ogni singolo cittadino che messe insieme hanno provocato due conseguenze: la vincita di un candidato e la perdita dell’altro.

Inizia nel 2008, quando The Scottsdale Museum of Contemporary Art per il progetto Seriously funny la invita a partecipare con un’opera inedita, purché sia divertente e ironica. A quel tempo i giardini si affollavano di segnali: Barack Obama o John McCain.

“Che strana cultura che abbiamo” pensa la Katchadourian “compriamo dei cartelli per fare in modo che tutti sappiano chi abbiamo scelto”.

 

Così mette in piedi The Monument to the unelected.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Pianta dei cartelli in vari siti del Paese creati e disegnati da lei stessa (ci sono dei volontari che si prestano a ospitarli davanti a casa propria) con sopra scritto il nome non del candidato vincitore, ma di quello perdente. Un cartello per ciascun perdente palesatosi dal 1788 ad oggi, aggiungendone uno ogni quattro anni, il giorno dopo le elezioni presidenziali.

“I perdenti vengono sempre dimenticati.”

 

E così non viene dimenticato nessuno. Con la sua opera crea una collezione del passato americano. Una collezione di tutte le scelte collettive non prese, riflettendo su quello che avrebbero potuto essere. Sul significato di una scelta. La libertà di scegliere e l’importanza di scegliere. Determinante. Su come la scelta di ciascun individuo non rimanga mai propria, ma determini in un modo o nell’altro il destino di qualcosa molto più grande.

Lo esprime attraverso dei segni, dei segnali, dei cartelli che restano per sempre mentre tutto intorno cambia.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, Pace Gallery New York, 2020

È dal 2008 che l’installazione viene esibita durante ciascuna elezione presidenziale sia in luoghi pubblici sia in musei e gallerie. Oggi l’installazione si trova nella galleria Pace di New York che ospita l’opera dal 18 settembre al 12 dicembre 2020.

E quest’anno tocca al cinquantanovesimo perdente.

Intervista immaginaria a Adele Bloch-Bauer, la Giuditta di Gustav Klimt.

Perché Giuditta?

Perché per Klimt facevo parte di quelle che vengono chiamate femme fatale. E io sono Giuditta. L’eroina ebrea che riesce a sedurre anche le bestie brutali e poi a ucciderle.

Giuditta I, Gustav Klimt, 1901, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

Uccide per davvero?

Non direi…

E Klimt è una bestia brutale?

Klimt? Assolutamente no. Ma io e Klimt non siamo stati mai insieme. Nonostante le voci dicano che… ma non è così. Si pensava che qualsiasi donna venisse ritratta da un artista fosse sua amante, ma non è così. A volte e anche spesso e anche nel mio caso, si creava un puro e semplice rapporto di creazione. Io lo ispiravo e lui si lasciava ispirare. A entrambi questo bastava. Le voci di quello che la gente dice non vanno mai ascoltate. E poi ero sposata.

Adele Bloch-Bauer (1881-1925)

Una sposa felice?

Io felice non lo sono di natura, però Ferdinand mi voleva bene. Aveva diciassette anni in più di me eppure facevamo la stessa vita. Allora la differenza di età non contava poi così tanto, non è come adesso. Le donne non avevano poi tutta questa emancipazione. A me sarebbe piaciuto andare all’università ad esempio e magari chissà, creare qualcosa di mio un giorno. Ma noi donne non potevamo. Così ho iniziato ad aiutarlo nella sua impresa e davamo ricevimenti su ricevimenti a casa. Questa era la nostra vita.

E Klimt quando è entrato a farne parte?

Faceva parte della combriccola che invitavamo a casa. Faceva parte delle belle menti. Veniva soprannominato Frauenversteher, l’intenditore di donne. Fu Ferdinand a chiedergli di ritrarmi. Alcuni potrebbero pensare che si fosse dato la zappa sui piedi… ma come ho già detto, non bisogna ascoltare quello che pensa la gente. Non se pensa male.  Tra me e lui non è mai successo niente. Non ho mai tradito mio marito.

Come mai l’ha ritratta come Giuditta?

Io vengo da una famiglia ebraica. Quel quadro era destinato ai miei genitori, è stato fatto per loro. E Giuditta è un bel personaggio nell’ebraismo, non trova? È proprio un bel personaggio. È bello vedersi nel ruolo di qualcun altro.

Vuole dire che è un ruolo che non le appartiene?

Beh, io cosparsa di oro con la testa di Oloferne smozzata che appare di scorcio non credo che mi appartenga molto. Ma in fondo qualcosa c’è. Era capace di crearmi in un modo in cui non mi sarei mai vista, ma grazie a lui sono riuscita a farlo. Capisce cosa intendo? Se guarda i quadri di Klimt, i suoi soggetti e la sua pittura, sono tutti molto lontani dalla realtà. Tutto questo oro ovunque e le linee e i colori. Non somigliano alla realtà. Eppure realtà. Come se la restituisse con qualcosa in più. Lui la prende, la disfa, la rifa’ e te la da’. Oro, oro ovunque. Tutti i quadri così dorati. Ognuno con un suo significato. Non trova?

E la sua famiglia?

Lo apprezzò molto. Chiesi poi a mio marito dopo la mia morte di cederlo alla Österreichische Galerie Belvedere. Volevo rimanesse a Vienna, la mia città. La città di Klimt. La città in cui doveva rimanere. E Ferdinand fu fedele. Fino all’arrivo del Reich. Nel 1938, quando l’Austria si unì alla Germania e quei balordi si presero tutto compreso il mio quadro. La mia famiglia fuggì e al mio quadro cambiarono il titolo. Woman in gold. Non sono d’accordo sul titolo. Sarebbe dovuto rimanere Giuditta. Ma va bene così.

Woman in gold?

Sì. La donna in oro. Non era proprio quello il senso. O forse in fondo sì. O forse ognuno ha il suo.

E dopo? Chi lo ha preso il quadro?

Mia nipote, Maria Altmann, dopo essere scappata dall’Austria ritornò anni e anni dopo a recuperare il quadro. La mia Giuditta. Recuperò i quadri rubati alla nostra famiglia dai nazisti. La mia Giuditta. Ma non riuscì a riprenderli tutti.

Si dice sia stata una grossa perdita per la vostra famiglia.

Quale perdita? Questa perdita? Quello che abbiamo perso sono cose. Oro. Quadri. Quadri d’oro. Solo cose. Non abbiamo perso quello che hanno perso tanti altri. Ma questo molti fanno fatica a capirlo, o forse semplicemente lo dimenticano. Lo capiscono, ma lo dimenticano.

 

 

 

Un segreto nella Chiesa di San Giorgio Maggiore a Napoli.

Napoli. Piazza Duomo. Sono tanti a conoscerlo, a esserci entrati. Ma dopo il Duomo c’è un’altra piazzetta. Si chiama piazzetta Crocelle ai Mannesi. E in quella piazzetta c’è una chiesa. Si chiama Chiesa di San Giorgio Maggiore. E in quella chiesa c’è un segreto. Un segreto svelato da non molto.

Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

L’edificio è stato costruito tra la fine del IV e gli inizi del V secolo e poi nel tempo ristrutturato varie volte. Oggi la struttura risale alla seconda metà dell’ottocento. La facciata è semplice e senza troppe decorazioni, sorretta da colonne con capitelli compositi e capitelli corinzi. Ma non è questo il punto. Quando si entra, in fondo, si vede l’altare maggiore.

Altare, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Dietro una balaustra in marmo, in mezzo a due sculture di Angelo Viva: Orazione e Chiesa. Chi ama il Cristo velato apprezzerebbe molto anche loro. I drappeggi sono aggraziati e belli, non conosciuti abbastanza forse. C’è poi una teca con le reliquie di San Severo e un crocifisso di legno che si eleva accanto. Ma non è nemmeno questo il punto.

Dietro l’altare, in fondo all’abside sono appesi due capolavori seicenteschi alle pareti: San Giorgio e il drago sulla destra e scene di vita di San Severo sulla sinistra. Capolavori del pittore napoletano Alessio D’Elia. Ma lì sotto c’è di più. E per guardare cosa ci sia si può chiedere al custode, che se è ancora lo stesso di qualche anno fa, arriva con un bastone e vestiti trasandati e un accento difficile da capire. Prende il bastone e sposta San Giorgio e il Drago di D’Elia. Ecco che lì sotto nascosto c’è un affresco, un altro affresco di qualche decennio prima, con lo stesso soggetto ma di un altro pittore. Aniello Falcone. Pittore nato a Napoli nel ‘600 e conosciuto per la sua potenza espressiva.

San Giorgio e il Drago, 1645, Aniello Falcone, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

San Giorgio e il Drago, Aniello Falcone, 1645, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Il guardiano osserva l’affresco come fosse la prima volta anche per lui e lo racconta.

“Un enorme cavallo bianco in primo piano che porta in sella il suo padrone. Che tenacia! Riuscite a vederla? L’iracondia del drago che spalanca la bocca e la veemenza di San Giorgio con il suo fedele alleato bianco che vuole sconfiggerlo. Bianco latte come le montagne. E alle sue spalle una donna. E sotto ai piedi cadaveri morti. Che meraviglia, riuscite a vederla? Che confusione, che emozione. Riuscite a vederla?”

Eccolo qui il segreto. Quello che non tutti riescono a vedere, ma chi vuole può farlo.

Perché non ha funzionato? Perché è stato nascosto? Un altro segreto non ancora svelato.

 

Santa Pudenziana a Roma e il suo mosaico particolare

Via Urbana, Roma, quartiere Monti. Scendendo la strada sulla destra c’è lei. La basilica Pudenziana. Molto piccola e molto semplice, tanto isolata da sfuggire all’occhio. Santa Pudenziana non è come Santa Prassede. Non è come Sant’Agnese o Santa Costanza o San Clemente o Sant’Ignazio. Santa Pudenziana è piccola e spoglia. Fa fatica a farsi notare tra una cupola e l’altra. A Roma è difficile farsi notare, nonostante sia stata tra le prime basiliche a nascervi. Costruita sulla domus del senatore Pudente forse nel II secolo, padre di Pudenziana e Prassede, e convertito poi al cristianesimo, viene trasformata in chiesa nel IV. Ma pochi fronzoli le sono stati messi addosso. Le ricostruzioni, le ristrutturazioni e le modernizzazioni sono state tante e ripetute, senza renderla mai un punto di attrazione della città. I turisti non ci sono e le folle neppure. Non c’è molto da guardare. Una normale basilica, in stile rinascimentale e un po’ barocco, con un’unica navata (originariamente erano tre), un tetto a volte e una cupola affrescata da nessun artista di spicco. Ma qualcosa da guardare c’è.

Basilica Santa Pudenziana, Roma

C’è un mosaico absidale. Un mosaico antichissimo, risalente al 390. Per molto tempo si è pensato fosse il primo mosaico absidale arrivato a Roma, affermazione poi smentita dai mosaici absidali di Santa Costanza che lo anticipano di trent’anni. Ma nonostante questo il mosaico di Pudenziana ha qualcosa in più. L’iconografia mostra Cristo Pantocrator (sovrano di tutte le cose) sul trono con la sua aureola e gli apostoli che sono diventati dieci anziché dodici dopo il rifacimento dell’altare. Ci sono due donne che potrebbero essere Prassede e Pudenziana, o potrebbero essere i simboli della Roma pagana e della Roma cristiana (ancora argomento di polemica). C’è una città sullo sfondo che potrebbe essere Gerusalemme oppure Roma. Ci sono l’angelo, il bue, il leone e l’aquila: i quattro viventi dell’apocalisse. Ma non sono questi il di più. Fino a qui può essere un’iconografia come un’altra.

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Il di più infatti sta nella croce. La croce sopra la figura di Cristo. È la prima volta in cui a Roma appare l’iconografia di Cristo con la croce. Il trono, l’aureola, il libro in mano, Cristo seduto e Cristo in piedi. Sono tutte caratteristiche ben sedimentate nella rappresentazione iconografica di Gesù, ma non la croce. La croce per la prima volta arriva nella capitale cristiana in Santa Pudenziana. Arriva per la prima volta in una chiesa che si fa fatica a notare. Che è tutt’ora più un luogo dove praticare che non da visitare. Visitata poco, guardata poco, conosciuta poco in una città dove le chiese non si lasciano desiderare. E forse è proprio questo a renderla una chiesa con qualcosa in più. Con un silenzio che ormai alle chiese non appartiene più.

Tracey Emin in 3 opere

Tracey Emin (Croydon, Regno Unito, 1963)

My Bed, 1998

Tracey Emin, My Bed, 1998

Fazzoletti arricciati, mozziconi, preservativi sporchi o impacchettati, contraccettivi, antidepressivi, asciugamani, peluche, della biancheria macchiata, una cintura e delle bottiglie mezze piene e mezze vuote. È il letto disfatto di Tracey Emin dove ha vissuto per quattro giorni dopo una battuta d’arresto dovuta a una relazione sentimentale.

“Nel ’98 ho avuto un terribile break down. Ho passato quattro giorni a letto semicosciente”

Per quattro giorni ci vive dentro. Ci fuma, ci beve, ci fa sesso, ma non quello bello, dice. Ci piange e ci si soffia il naso. Fa tutto lì dentro per quattro lunghissimi giorni. Le lenzuola sono talmente accartocciate da aver assorbito i suoi movimenti. Come se si fossero adattate e assemblate al suo corpo. Pieghe, solchi, grovigli e sporcizia. C’è tutto in quelle lenzuola esattamente come nel suo corpo.

“Dopo quattro giorni mi sono alzata per bere un po’ d’acqua. Ero in condizioni pietose, ero disidratata e riuscivo a malapena ad aprire gli occhi. Ho guardato il letto per tornarci sopra, ma l’ho trovato disgustoso. Faceva schifo, era sporco e puzzava. Ma poi ho pensato, non è disgustoso. Non è affatto disgustoso”

Un letto con un materasso morbido che l’ha tenuta lontana da terra. Coperta o scoperta, intatta o sfatta, cosciente, non cosciente… in qualsiasi condizione fosse il letto l’ha salvata. La prende, la sostiene e la salva. Così l’artista non arriccia più il naso quando lo guarda e non storce più la bocca. Prende tutte le cose lì intorno e le mette in una sacca. Poi prende il letto così com’è e lo porta a esporre. Gli risistema tutte le cose intorno ed ecco l’opera in Galleria.

Diventa così sua opera simbolo e fantasma del suo passato.

“Adesso non sono più così. Guardo quel letto e non sono più così. Provo dolcezza quando lo guardo. Provo dolcezza per la disperazione che riuscivo a provare quando ero più giovane. Quando sei giovane ti disperi così tanto. Con gli anni diventi più robusto, impari a sopportare. Quando guardo quel letto so che non tornerà più quella cosa lì, quelle cose non mi appartengono più”

E tra tutte quelle cose c’è una cintura nel mezzo del tappeto. Una cintura che quando l’artista era giovane metteva in vita. Adesso le starebbe giusto a una coscia.

“Te l’ho detto, con gli anni diventi più robusto”

Anche se forse trasformare la disperazione in una bella cosa vuol dire essere già un po’ robusti.

 

Everyone I Have ever slept with/My tent , 1963-‘95

Tracey Emin, Everyone I Have ever slept with, 1963-1995

Everyone I Have ever slept with o My tent  è la tenda da campeggio in cui Tracey Emin scrive tutti i nomi di tutte le persone con cui ha dormito. 102 nomi. Così intitolata e mal interpretata, i nomi che scrive non sono le persone con cui va a letto, ma quelle con cui il letto lo condivide, dal ’63, anno di nascita, al ‘95. Sua nonna, suo fratello, gli amanti, gli amici e anche i due bambini suoi mai nati. Dormire con qualcuno è l’atto più intimo si possa fare.

“Non dormire con chi non ami”

Tracey Emin, Everyone I Have ever slept with, 1963-1995

L’opera esposta alla mostra collettiva Minky Manky alla South London Gallery diventa il punto di attrazione per il pubblico. Quando lo spettatore ficca la testa dentro e poi la tira fuori pensa con chi ha dormito, con chi ha condiviso letto, sonno e, o, intimità. E al centro scritto molto in grande:

“Con me stesso, sempre con me stesso, senza dimenticarlo mai”

Emin lo descrive come un lavoro doloroso e poco facile e che nel 2004 viene distrutto. Ma non da lei, da un incendio nel magazzino del Momart di Londra. L’artista non lo realizza di nuovo “Le emozioni che ho sentito dal ’63 al ’95 le ho sentite dal ’63 al ’95. Non sarebbe più la stessa cosa”

 

Sad shower in New York, 1995

Tracey Emin, Sad Shower in New York, 1995

L’intimità del letto si trasferisce nella doccia. Sad shower è un disegno dell’artista fatto dopo un viaggio a New York. Patetica e scoraggiata. Così si descrive e così si ritrae. Patetica e scoraggiata sotto la doccia. Molto spesso quando viaggia si sente così e Sad shower rappresenta il momento di isolamento e introspezione che porta con se’. Il momento in cui si sciacqua, si scrolla, pulisce e risciacqua. Insapona, improfuma. È il momento in cui si guarda. Fa uscire. E si ripete. Nuda si guarda. E si ripete. Quello che è e quello che fa. Quello che cambia. La doccia è il pulitore dell’anima. Che non vuol dire necessariamente togliersi di dosso qualcosa. Ma semplicemente ripulirlo. E quando viaggi qualcosa ripulisci sempre. Qualcosa scrolli e risciacqui.

 

 

 

 

Il bacio di Brancusi e il suicidio d’amore. Intervista immaginaria a Tatiana Rachewskaïa

Come ti chiami?

Tatiana. Tatiana Rachewskaïa.

Tatiana Rachewskaïa, cimitero di Montparnasse, Parigi

Quanti anni hai?

  1. Ho 23 anni e sono nata a Kiev nel 1887.

In pochi conoscono la tua storia. Eppure Brancusi ha scolpito per te Le Basier. Sei tu una delle figure ritratte, giusto?

Non credo proprio pensasse a me mentre la scolpiva, ma sicuramente sono io quella seppellita lì sotto. Non ho mai conosciuto Brancusi, non era nemmeno famoso ai tempi. Lo conosceva Salomon. So che dopo la mia morte ha voluto fargli o farmi o farci un regalo, per quanto potesse valere. Scolpire un uomo e una donna avvinghiati… noi due mentre ci baciamo. Ha scolpito un bacio e l’ha messo sopra la mia tomba, a Montparnasse. E quello è diventato il nostro bacio. È bello, non trovi?

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi

Oh sì, e non sono il solo… ma che ci facevi a Montparnasse? Più che altro, cosa ci fai nella tomba?

Se non fossi mai arrivata a Montparnasse probabilmente non mi troverei nemmeno lì sotto. Ad ogni modo, mi ero trasferita a Parigi per studiare medicina. Volevo diventare un medico. Avevo 23 anni, mi sono fermata a quell’età. Un po’ presto, no? Comunque… vengo da una famiglia aristocratica e non avevano problemi a sostenere le spese per i miei studi. Così sono andata a Parigi e mi sono iscritta all’Institut Pasteur, Rue du Dr Roux, ed è lì che ho conosciuto Salomon. Salomon Marbais, un giovane medico nato in Romania. L’uomo più bello che abbia mai incontrato.

È lì che è nata la vostra storia?

Sì. All’istituto. Centro di studi per guarire le persone. Mentre io al contrario mi sono ammalata. Soffrire d’amore è una malattia vera e propria, sai? Si può morire, e a me è successo. Morta per amore.

Non ti sei ammalata però, ti sei suicidata…

Cosa cambia? Ho solo accelerato i tempi, sarei morta comunque.

Perché non era corrisposto?

Questi non sono affari che ti riguardano.

Mi dispiace, non volevo. Torniamo alla statua allora. È Salomon quindi che ha chiesto a Constantin Brancusi una statua per la tua tomba?

Sì. Salomon e Constantin erano amici. Apprezzava molto l’arte di Constantin nonostante fosse solo agli inizi. Aveva già scolpito un bacio. La sua prima scultura d’arte moderna, era il 1907. A Salomon piaceva molto, così decise che era quella la rappresentazione che voleva per me al cimitero, e Brancusi ne fece una non uguale uguale ma molto simile.

E secondo te vi rappresenta?

Sono due forme molto semplici. È praticamente un blocco di pietra quadrato con due figure incise dentro. E le due figure sono quasi uguali, come fossero alla pari. Dici che ci rappresenta? Dici che io e lui siamo uguali? Siamo alla pari? Io direi di no. Sono due figure uguali e ridotte all’essenziale. Brancusi diceva che la semplicità non è altro che una complessità risolta… forse lo è anche l’amore, no? e nel nostro caso è stata risolta male. Adesso le due figure stanno lì sopra. Avvinghiate sopra di me.

Sono dieci anni che la tua famiglia manda avanti una battaglia con lo Stato francese. Non so se ti hanno aggiornata. La tua famiglia vorrebbe prendersi l’opera, dice che gli spetta. Ed è un’opera che può ambire al valore di 40 o addirittura 50 milioni di dollari. Se vincessero si metterebbero un bel po’ di soldi in tasca i tuoi parenti. Lo Stato però non cede. Dice che appartiene ai cittadini e a tutti quelli che visitano il cimitero di Montparnasse. È un’opera pubblica e al pubblico deve appartenere. Tu da quale parte ti schieri?

Schierarmi? Sono morta da più di un secolo. Cosa importa a me non importa più ormai. Ma non sono ne’ i soldi ne’ il pubblico di certo.

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi