Ladies and Gentlemen, Andy Warhol

Andy Warhol, Ladies and Gentlemen, 1975

Ladies and Gentlemen, Andy Warhol, 1975. 10 serigrafie di drag queen e donne trans del nightclub di New York The Gilden Escape. I colori sono forti, accesi, non rispettano i contorni. Vanno per conto loro seguendo un proprio schema, liberi di muoversi dove vogliono. Senza linee guida trasgrediscono il disegno e conquistano il primo piano.
Siamo negli anni ’70 e l’arte inizia a svolgere un ruolo importante nella lotta per i diritti civili della comunità LGBTQ+.
Una sera di giugno, nel ’69, la comunità gay si scontra con la polizia all’interno del bar di New York Stonewall Inn . È così che inizia la rivolta di Stonewall e il movimento di liberazione gay ed è così che l’arte lo insegue e lo accompagna.
Warhol prende 14 modelle e una polaroid e inizia a scattare. Nella prima fase del suo lavoro Scatta e cattura l’istante spontaneo e unico. Le modelle non hanno paura, si sono cucite un vestito addosso che gli sta comodo per affrontare il mondo fuori. Trucco, parrucco, vestiti sgargianti e brillanti. Lì immobili a guardarti. Warhol cattura l’unicità del momento che non torna più e la modifica. Nella seconda fase del lavoro ripete, divulga e copia e copia e copia centinaia di immagini catturate nello stesso istante. È questa la serigrafia: meccanizzazione del procedimento di stampa, la possibilità di ottenere un numero elevato di copie e mantenere una buona qualità. 
La scelta tecnica dell’opera in questo caso può avere un intento importante.
Qual è l’intento? Riprodurre fino alla nausea, perché forse è così che bisogna fare per radicare prepotentemente l’evoluzione nella propria testa e in quella degli altri.  Ripetere. Ripetere per essere sicuri di aver capito e di farsi capire. 

Marsha P. Johnson, Ladies and Gentlemen, Andy Warhol, serigrafia 1975

Marsha P. Johnson, fotografia 1975

 
 Tra le modelle scelte si riconosce Marsha P. Jonson, attivista statunitense durante i moti di Stonewall.
“I’d like to see the gay revolution get started… If a transvestite doesn’t say ‘I’m gay and I’m proud and I’m a transvestite,’ then nobody else is going to hop up there and say ‘I’m gay and I’m proud and I’m a transvestite’ for them.”
(Mi piacerebbe che avesse inizio la rivoluzione dei gay. Se un travestito non dice ‘sono gay e sono orgoglioso e sono travestito’, allora nessun altro lo dirà per lui/lei).
 In ladies and Gentlemen non viene specificato il nome di Marsha P. Jonson, né quello di nessun altro. Restano volti anonimi. Tanto uguali quanto diversi tra loro. E forse è proprio questo su cui insiste Warhol. Dare lo stesso valore alla uguaglianza (ripetizione/copia/serigrafia) e alla diversità (catturare un momento/unicità/fotografia). 

Ritratti modelle di Ladies and Gentlemen, 1975

“Ogni modello è un individuo specifico che colpisce per la sua personalità. Essi avevano spesso vite complicate, ma erano estremamente creativi, brillanti, spaventosamente divertenti” (Neil Printz, Presidente della Andy Warhol Foundation).
 
 
Andy Warhol  insiste. Forse è così che bisogna fare sempre. Insistere, riprodurre, ripetere, sottolineare, fino a quando non entra in testa. Esagerare per far sì che la diversità diventi normale.
Quanto ci vuole a far diventare normale ed egualitario qualcosa di diverso?

Il Monumento ai non eletti di Nina Katchadourian

Nina Katchadourian (Stanford, 1968)

Stati Uniti. Al posto dei nani da giardino ci sono i cartelli elettorali che quest’anno tengono il nome di Biden o Trump.

Nina Katchadourian, artista nata a Stanford, California, nel 1968, espone anche quest’anno la sua opera Monumento ai non eletti, o meglio Il monumento dei perdenti.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Ma cosa sono intanto i cartelli da giardino negli Stati Uniti?

Sono dei cartelli venduti dalle campagne elettorali ai cittadini che presentano come logo il nome del candidato alle elezioni presidenziali. Il cittadino compra il cartello con il nome del candidato che preferisce, a un prezzo che varia dai 10 ai 15 dollari e con una dimensione che varia in base alle regole di ciascun Stato, e lo pianta nel proprio pezzo di prato per mostrare ai vicini di casa e ai passanti interessati la propria scelta.

È una tradizione che va avanti da sempre nel Paese. La prima volta che appare è stato nel 1820 per le elezioni di John Quincy Adams e man mano si è diffusa sempre di più.

“Sempre di più, ma mai come quest’anno. Quest’anno c’è un forte bisogno da parte degli americani di esprimere il proprio pensiero” dice l’artista.

 

Nina Katchadourian cosa fa? Non spiattella al pubblico chi preferisce tra un concorrente e l’altro, ma mostra semplicemente i fatti come stanno: le scelte di ogni singolo cittadino che messe insieme hanno provocato due conseguenze: la vincita di un candidato e la perdita dell’altro.

Inizia nel 2008, quando The Scottsdale Museum of Contemporary Art per il progetto Seriously funny la invita a partecipare con un’opera inedita, purché sia divertente e ironica. A quel tempo i giardini si affollavano di segnali: Barack Obama o John McCain.

“Che strana cultura che abbiamo” pensa la Katchadourian “compriamo dei cartelli per fare in modo che tutti sappiano chi abbiamo scelto”.

 

Così mette in piedi The Monument to the unelected.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Pianta dei cartelli in vari siti del Paese creati e disegnati da lei stessa (ci sono dei volontari che si prestano a ospitarli davanti a casa propria) con sopra scritto il nome non del candidato vincitore, ma di quello perdente. Un cartello per ciascun perdente palesatosi dal 1788 ad oggi, aggiungendone uno ogni quattro anni, il giorno dopo le elezioni presidenziali.

“I perdenti vengono sempre dimenticati.”

 

E così non viene dimenticato nessuno. Con la sua opera crea una collezione del passato americano. Una collezione di tutte le scelte collettive non prese, riflettendo su quello che avrebbero potuto essere. Sul significato di una scelta. La libertà di scegliere e l’importanza di scegliere. Determinante. Su come la scelta di ciascun individuo non rimanga mai propria, ma determini in un modo o nell’altro il destino di qualcosa molto più grande.

Lo esprime attraverso dei segni, dei segnali, dei cartelli che restano per sempre mentre tutto intorno cambia.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, Pace Gallery New York, 2020

È dal 2008 che l’installazione viene esibita durante ciascuna elezione presidenziale sia in luoghi pubblici sia in musei e gallerie. Oggi l’installazione si trova nella galleria Pace di New York che ospita l’opera dal 18 settembre al 12 dicembre 2020.

E quest’anno tocca al cinquantanovesimo perdente.

William Pope L., il pescatore delle assurdità sociali, striscia al MoMA di NY.

MoMA. New York. Tra la undicesima e la cinquantatreesima strada, il 21 ottobre 2019, il museo d’arte contemporanea inaugura il suo nuovo riallestimento. La solita struttura e la solita entrata e i soliti cinque piani. Le vecchie e storiche opere ci sono ancora, ma convivono con le new entry che sono tantissime e nuovissime.

William Pope L. (Newark, New Jersey, 1955)

Tra queste, al terzo piano, nella sala The Edward Steichen Galleries c’è lui: il pescatore delle assurdità sociali. William Pope L. Non ci sarà per sempre, perché ospite fino a febbraio. Una mostra interamente dedicata all’artista, intitolata: member: Pope.L, 1978-2001.

Chi lo conosce? In America in tanti e altrove in pochi.

Pope L. nasce a Newark nel New Jersey nel 1955 e dagli anni ‘70 raccoglie e tira fuori assurdità sociali in giro per la città. La retrospettiva si concentra sulle performance tra gli anni ’70 e i primi 2000: performance dove Pope usa il suo corpo per le strade della Mela Grande. È così che nel 1978 da’ inizio alle street action che lui chiama Crawl: strisciare.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

In The Great White Way vestito con indosso una tutina da Superman e uno skateboard per appoggiare la schiena quando è troppo stanco, striscia dalla statua della libertà fino al Bronx. Strisciare diventa uno dei suoi marchi: strisciare per le strade. Perché? Sono gli anni ‘70 e ‘80. Anni in cui New York ha un problema serio con i barboni. Ci sono barboni ovunque. Meravigliose persone sdraiate per strada e che vivono per strada. Alcuni di loro sono anche parenti e amici dello stesso Pope. Ma lui non veste mai come loro: o da Superman o da business man.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

Il 18 luglio 1991 c’è un’afa che arriva fino a 40 gradi. Eppure Pope striscia attorno Tompkins Square indossando una maglietta bianca e un completo nero, bianco nero non per caso, tenendo in mano un vasetto con un fiore giallo. Dopo un isolato viene fermato da un passante che a sua volta ferma un poliziotto perché indispettito.

‘Lasciatemi fare il mio lavoro’ risponde l’artista e il suo lavoro lo fa per davvero.

Strisciare, vestito con un completo perfetto per l’ufficio. Strisciare, strisciare e strisciare tra un grattacielo e un altro. Stesi a terra a rifiutare la verticalità dei palazzi alti, a metaforizzare il non avere con l’avere. l’orizzontale e il verticale. Il basso e l’alto.

Tompkins Square Crawl, William Pope L., 1991, MoMA, New York

C’è un fiore. In tutto ciò Pope tiene in mano un fiore. Un fiore giallo. Il fiore di chi semina qualcosa che può crescere bene e tanto, luminoso e giallo.

Ma non sono solo crawl le sue. Nel 1994 partorisce Cow Commercial, la mucca commerciale. Una mucca di plastica che Pope porta in braccio con se’ tra i marciapiedi di New York come fosse un oracolo, recitando pensieri religiosi e filosofici confinanti con l’assurdo. Ed è proprio la mucca ad essere protagonista. E cosa c’entra la mucca di Pope con la filosofia e la religione? Una mucca pubblicitaria per opporsi alla filosofia e alla religione? Forse.

Cow Commercial aka Black Domestic, William Pope L., 1994, MoMA, New York

L’opera allude alla pubblicità molto di moda e molto discussa negli Stati Uniti d’America negli anni ’90. La pubblicità statunitense per eccellenza. Got Milk. Campagna pubblicitaria che invita i cittadini americani a comprare e a consumare più latte. E loro lo fanno. Comprano e consumano più latte, riempiendo scaffali e scaffali di latte di tutti i tipi ovunque.

Pope così prende la sua mucca e la addobba con tre elementi:

  1. Un’etichetta con su scritto sold appiccicata sulla pancia.
  2. Una bottiglia di vino vuota e un’etichetta con su scritto race che le tappa la bocca.
  3. E una bandierina americana infilata nell’ano.

Come fanno questi tre elementi a stare insieme su una mucca bianca e nera, produttrice di latte?

Di razza bianca, nera o qualsiasi essa sia, non è questo che importa, quello che importa è che la mucca, madre produttrice e artefice di consumo, è un animale venduto. Venduto perché pronta a ingerire tutto quello che c’è da ingerire. Con una bottiglia vuota etichettata race che le tappa la bocca. Una race un po’ ubriaca che ha ingerito quello che doveva.

E nell’altro orifizio?

Una bandierina americana. Perché chi meglio dell’America sa farti ingerire qualcosa? La padrona del consumismo e della riproduzione. Pronta a vendere l’invendibile. E a prendere tutti quanti per il sedere sventolando la sua bandiera.

 

 

Rosachiara Pardini

 

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Joseph Beuys e il coyote. I like America and America likes me.

Joseph Beuys. A parte la stanza e a parte il coyote non ha toccato altro e non ha visto altro. Non ha visto l’America. Non l’ha toccata nemmeno con un piede. Arrivato all’aeroporto di New York JFK si è fatto trasportare infetto e bendato su una barella infilata in un’ambulanza fino alla Renè Block Gallery di Downtown e si è chiuso in una stanza. Maggio 1974. Insieme a un coyote. Per tre giorni. Lui e il coyote.

“Volevo isolarmi, non vedere nient’altro oltre al coyote”.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

Ma perché proprio lui? Perché un coyote? Proprio il coyote perché è un canide lupino indigeno del Nord America. Animale selvaggio. Animale antico. Animale consueto nel folclore dei nativi americani. Simbolo delle origini americane. Prima che l’America si chiamasse America, lui era già lì.

E se alla fine dell’opera d’arte durata tre giorni, i due coinquilini si fossero adattati l’un l’altro, allora Beuys avrebbe potuto dire che I like America and America likes me.

E così ha intitolato la sua opera d’arte.

L’opera d’arte è la performance stessa. Visibile integralmente solo da chi a maggio del 1974 era a New York, alla galleria Renè Block a 409 West Broadway, a SoHo, in piedi a guardare Beuys e il coyote. Alcuni tratti spezzettati sono però ancora visibili alla Tate Modern di Londra o su internet, perché girata in parte su pellicola di 16 mm in bianco e nero.

Sulla pellicola di 16 mm si vede Beuys con un cappello, un gilet e una coperta di feltro addosso. Ha un bastone eurasiatico. Come fosse uno sciamano e il coyote il suo sciacallo dorato (l’antenato ancora più antico del coyote).

Convivono dentro a una stanza per tre giorni. All’inizio l’animale diffida dell’uomo. Morde il bastone e morde la coperta, ma non morde lui. Si scrutano e si girano attorno. Dormono. Mangiano. È Beuys a mettere ciotole di acqua e di cibo a disposizione del coyote. Natività e civiltà che s’intrecciano e si assemblano e si adattano. I like America and America likes me.

Il coyote non lo morde mai, non lo attacca mai. E lo stesso fa Beuys. Il coyote tendenzialmente non è un animale aggressivo, non tende ad attaccare l’uomo e non attacca Beuys.

“All’America piaccio. Alla natura piaccio”. E la gente li guarda e decide se gli piace o no quello che guarda, a seconda di quello che interpreta. E le interpretazioni sono tantissime. Contraddittorie come l’opera stessa che stanno guardando.

Animale gregario e solitario allo stesso tempo. Adattabile e ribelle allo stesso tempo. Animale contraddittorio in un Paese contraddittorio. Dentro all’arte contraddittoria.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

 

 

 

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Un crocifisso, dell’urina e un barattolo. L’opera Piss Christ di Andres Serrano.

Andres Serrano (1950, New York).

Andres Serrano, (New York, 1950)

Piss Christ. Una statuetta di cristo crocifisso immersa nel piscio, fotografia scattata ed ecco l’opera d’arte. Opera d’arte che nel 1989 viene esposta e vince un premio: Awards in the Visual Arts. Un premio di 15mila dollari messo in palio dal Southeastern Center for Contemporary Art, sponsorizzato da un ente governativo statunitense. Ma non tutti sono d’accordissimo. Chi non è d’accordissimo è immaginabile. I cattolici la trovano tanto offensiva e volgare da infrangere il vetro e danneggiare la fotografia una volta esposta al museo Collection Lambert di Avignone nel 2011. “È offensiva!”.

Piss Christ, 1987, Andres Serrano

“Ma non penso sia offensiva. È la riflessione del mio lavoro, sia come artista sia come cristiano“ dice Serrano. Cristiano cattolico americano cresciuto in chiesa. Ma solo fino a tredici anni.

“I tredici anni sono l’età in cui un ragazzo o ascolta la voce di Dio o ascolta il proprio corpo. Se sei un ragazzo sveglio, ascolti il tuo corpo” e lui lo ascolta. Lo ascolta così tanto da farne un’arte. Urina e sperma e sangue. Mostrare al mondo intero i propri residui organici. E perché? Perché l’arte è libera e la libertà d’espressione è legittima. Libertà esposta e vincitrice di un premio. 15mila dollari dati a un artista povero esordiente che mette un crocifisso in un barattolo dopo averci urinato dentro.

“Cosa sono diventato grazie anche a quei soldi? Un artista dal nome grande. È stato un grandissimo investimento per lo Stato e per gli Stati Uniti”.

Ma non tutti anche qui sono sempre stati d’accordo. Due parlamentari, appena Serrano vince il premio, si riuniscono in aula per dichiarare l’opera volgare e blasfema e non meritevole 15mila euro perché oltraggiosa, soprattutto quando i dollari provengono dalle tasche dello Stato.

Ma Serrano continua a difendersi. “Io non voglio scioccare nessuno. Sono cristiano”.

A difenderlo, colpo di scena, c’è anche una suora. Suora Wendy Beckett che non è solo una suora, ma anche una critica d’arte. Suora Beckett descrive l’opera come la rappresentazione del modo in cui la società contemporanea si pone nei riguardi di Cristo e dei valori che rappresenta.

Gli anni dopo Serrano continua.

Blood and Semen II. L’artista mischia nell’opera sangue e sperma che poi fotografa.

Blood and Semen II, 1990, Andres Serrano

Ma perché lo sperma? Perché alla ricerca di nuovi colori. E fa così tanto parlare di se’ da diventare la copertina dell’album Load dei Metallica e la stampa di vari capi di abbigliamento del marchio Supreme NYC.

Sangue mestruale, urina e latte materno quindi non bastano. Inizia a eiaculare su tela. A eiaculare così tanto da intitolare una delle sue opere Ejaculate in Trajectory. Eiaculazione. Mostrare a tutti quanti i propri liquidi come fossero pennellate bianche. Come se masturbarsi su una tela fosse un’arte.

Ejaculate in Trajectory, 1989, Andres Serrano

Madonna and Child II. Un’altra opera fatta di residui liquidi corporei.

Madonna and Child II, 1989, Andres Serrano

“Sono religioso, non più cattolico, ma sempre cristiano. Io non denuncio il cristianesimo, voglio solo rappresentarlo, a modo mio”.

E Serrano rappresenta e manifesta a modo suo la religione. Cosa intima e sacra. E come? Con qualcosa di altrettanto intimo e sacro. La masturbazione e il liquido interiore. L’intimità di un corpo mostrato al mondo, sacrificando il pudore per la libertà di espressione.

E così che fine fanno il pudore e la così sacra religione?

E qual è il compito dell’arte contemporanea?

Fotografare un crocifisso immerso nell’urina o una masturbazione ben riuscita e pubblicizzarli su un disco o su una maglietta da comprare?

Libertà di espressione, soldi, religione e pudore possono stare tutti insieme nello stesso barattolo?

 

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Guerrilla Girls. Le artiste gorilla.

Guerrilla Girls, New York City

Ragazze gorilla, ragazze guerrilla. Guerrilla Girls. Artiste femministe attiviste. La parola guerrilla si confonde con gorilla perché portano delle enormi maschere a forma di scimmia e non se le tolgono mai. Nemmeno per le interviste.

È così che stabiliscono la loro immagine: durante un’intervista. Si presentano ‘siamo le Guerrilla’ e un giornalista inglese sbaglia a fare lo spelling. Scrive Gorilla. Loro non si offendono perché dei faccioni da scimmioni cattivi e oscuri si adattano bene ai loro intenti.

Fanno arte. Ma non è pittura e non è scrittura e non è architettura o progettistica. Sembra più pubblicità. Arte fatta di grandi manifesti e volantini e cartelloni che dicono cose e pensano cose e fanno pensare a cose. A cosa… a proteggere e a spingere fuori la propria identità e il proprio genere, il proprio colore della pelle. L’identità che mascherano dietro a una faccia da scimmia perché tutti devono essere uguali a tutti, non la mascherano al mondo intero nella loro produzione artistica quando cominciano negli anni ’80 a tappezzare New York di volantini e a scrivere che tutti devono essere uguali a tutti, anche nell’arte.

Si riuniscono come fossero un ghetto al femminile a partire dall’85. Il MoMA l’anno prima allestisce una mostra: an international survey of recent painting and sculpture (1984). MoMa. New York. Arte contemporanea. Arte nuova nuovissima nella città nuova nuovissima dove le cose nuove nuovissime arrivano per prime primissime, ma non del tutto. La mostra ospita 169 artisti in totale. Un totale squilibrato perché tra questi compaiono solo 13 donne. 156 contro 13. È da qui che le scimmie guerriere si riuniscono contro musei e gallerie di New York per poi espandersi ovunque per il non spazio o poco spazio dato all’interno di essi. Studiano statistiche e il loro studio accurato le porta a constatare che la donna nell’arte viene messa da parte un po’ troppo rispetto all’uomo. Non è una constatazione sbalorditiva né originale né innovativa, eppure innovativamente iniziano a renderlo noto cospargendo la città di pensieri polemici, proteste e parole, riproduzioni di quadri famosi rielaborati e frasi su frasi.

Guerrilla Girls, we seel white bread, 1987

Come l’odalisca di Ingres. La longilinea e liscia e bella odalisca di Ingres.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La Grande Odalisca, 1814, Museo del Louvre

Cosa c’entra con un gorilla pelosissimo?

Guerrilla Girls Talk Back, 1989, Tate Modern

C’entra quando le guerrilla la mettono su un manifesto tutto giallo e le piazzano sulla faccia il mascherone di uno scimmione che domanda:

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Potrebbe essere. Una donna nuda e ben in posa è sempre bella. Vestita, svestita, castana, bionda, rozza, grossa, lunga. Va comunque più o meno bene. Ma una donna che arriva con un quadro sotto al braccio e dice ‘questo l’ho fatto io’ forse un po’ meno.

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Le Guerrilla tirano fuori una percentuale e la scrivono sotto l’odalisca. L’85 per cento dei quadri esposti al Met ha come soggetto una donna nuda, ma solo il 5 per cento dei quadri esposti è stato dipinto da una donna. E perché? davvero solo perché le donne bamboline sono così tanto carine come manichine che non possono fare altro? Perché la virilità maschile ha divorato la fragilità femminile fin da sempre? La cruda legge del più forte contro il più debole? Forse nei tempi antichi è stato fatto uno studio accurato e ignaro in cui risultava che il cervello maschile fosse più brillante di quello femminile. O forse non esiste nessuno studio e nessun motivo ben preciso e il tutto fa pensare se sia stata la donna a tarparsi le ali da sola o l’uomo ad approfittarsene. L’uomo ad alimentare sempre di più il maschilismo e ad approfittarsene. E adesso maschilismo e femminismo finiscono per divorarsi l’un l’altro. Un mostro che crea un altro mostro?

Guerrilla Girls, I am not a Feminist, 2009

Chissà se già fin dall’inizio dei tempi era così. In fondo all’inizio, inizio del mondo, c’eravamo già entrambi. Un uomo e una donna. Una scimmia e un’altra scimmia.

 

 

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