Solar Dogs, due soli nel cielo. L’idea del doppio in mostra a Roma

Solar Dogs, Spazio In Situ, Roma

Solar Dogs è una mostra che sperimenta la relazione tra realtà e finzione ragionando sull’idea del doppio.

Il titolo della mostra: Cani solari. Cosa sono?
Sono copie del sole.
Sono macchie luminose ottenute da un fenomeno ottico atmosferico che somigliano al Sole, senza averne però il calore e la grandezza. In qualche modo sono una simulazione del reale.
 
La collettiva, curata da Caterina Taurelli Salimbeni, si ispira al testo “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares, nel quale l’apparizione del doppio sole insinua nell’autore il dubbio che ciò che osserva non sia del tutto reale – scoprirà che si tratta di una riproduzione del reale di cui l’originale è andato perso. La mostra così esplora il concetto di doppio, di vero e finzione, esistere e non esistere, attraverso questioni esistenziali racchiuse in 11 opere realizzate appositamente per l’occasione dagli artisti e dalle artiste a Spazio In Situ, a Roma. Aperta al pubblico fino al 14 gennaio.
 
Di seguito una selezione dei lavori in mostra.
 
Welcome To Bikini Island, Andrea Frosolini
 
Welcome to Bikini Island, Andrea Frosolini,
 
L’artista crea un solarium. Stese su lettini ci sono due ragazze che prendono il sole. Restano completamente immobili, bianco latte con dei bikini bianchi e delle lampade rosse sulla faccia. C’è una dimensione di tensione nel contrasto tra la loro calma e il rischio e pericolo che corrono per ciò che fanno. Il lavoro prende origine dall’atollo di Bikini, un insieme di isole al centro del Pacifico che vennero utilizzate negli anni ’40 come poligono nucleare americano, trasformando il paradiso tropicale in una zona radioattiva e tossica. L’artista manifesta la contraddizione del nostro vivere: male e bene, finto e realtà, sogno e incubo.
 
Alta Marea, Sveva Angeletti
 
Alta Marea, Sveva Angeletti
 
Una stampante attaccata al soffitto riproduce a ciclo continuo l’immagine di una marea che finisce a terra in un trita documenti e che viene disintegrata/spezzettata in diverse strisce di carta strette e lunghe diventando un garbuglio di sfumature azzurre come un’onda che si distrugge sulla riva del mare.Il movimento/la forza motoria di questa installazione è la creazione e la distruzione. La creazione di qualcosa che poi viene frantumato sulla sabbia. La creazione, l’esistenza di qualcosa che in un momento, sbattuta a terra, non esiste più.
 
Thunderbolt #1, Francesca Cornacchini
 
Thunderbolt #1, Francesca Cornacchini
 
Fa parte della serie See you on a dark night. Sulla tela il segno di un fumogeno blu. Non ha un processo o metodo di lavoro con un inizio e una fine. Non ha ordine, è un accadimento. Non ha schemi spaziali. Il segno è un fulmine. Una scarica elettrica. Un attimo che divide il cielo in due. L’artista cerca di rispondere a domande esistenziali attraverso un segno che rappresenta il caos e il caso, la casualità del succedere, il buio, la notte, possibili futuri e deliri distopici. Una scossa che viene e che va e che può essere innescata da qualsiasi oggetto sospeso nell’atmosfera. Un po’ come fanno le nostre domande, le nostre scosse, quando arrivano, innescate da qualsiasi cosa.
 
Confidenze all’uomo moderno 2, Francesco Andreozzi
 
Confidenze all’uomo moderno 2, Francesco Andreozzi
 
Sulla tela un uomo moderno. Imballato da un tessuto sintetico nero, occhiali a schermo con lenti specchiate, farfalline intorno che lo lasciano immobile senza espressione. Sullo sfondo il cielo o il mondo, un esterno a cui lui rimane impermeabile. Non puoi vedergli gli occhi, non puoi vedergli la bocca né il naso. Crea un muro. L’opera racconta il distacco dalle emozioni esistente nella società contemporanea. Un uomo coperto da plastica e nylon che si protegge dal freddo, dal vento, dalle farfalle, da quello che può vedere e da quello che può sentire, dai sentimenti. Sapersi vestire, sapersi proteggere, saper stare, è più importante questo di tutto il resto.
 
Succede piuttosto comunemente di avere dei copioni o delle finzioni nelle nostre realtà, dei cosiddetti cani solari che spesso vengono confusi o non si riescono a distinguere o a definire. Ma come avviene nei fenomeni atmosferici, forse avviene anche per noi: dipende tutto dalle nostre condizioni, dalle condizioni del cielo, per riuscire a riconoscere il calore e la grandezza del Sole, vero.
 
Solar Dogs, Spazio In Situ, Roma
 
Solar Dogs
A cura di Caterina Taurelli Salimbeni 
Artisti/e: Francesco Andreozzi, Sveva Angeletti. Alessandra Cecchini, Francesca Cornacchini, Marco De Rosa, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione, Andrea Frosolini, Giulia Gaibisso, Daniele Sciacca, Guendalina Urbani
27 ottobre 2023 – 14 gennaio 2024
Spazio In Situ, Roma

La Venere di Savignano. Tra i più importanti ritrovamenti dell’arte preistorica.

Cos’è quest’oggetto appuntito? È uno schiaccianoci? No. Ma c’è chi per un po’ di tempo lo ha visto così.

Venere di Savignano, Reale Museo Nazionale Preistorico Etnografico, Roma

In realtà è una statuetta che rappresenta una Venere. La Venere oggi chiamata di Savignano perché rinvenuta proprio nei pressi di questa località vicino Modena nel 1925. Ha origini antichissime. Neolitiche o addirittura Paleolitiche.

La sua forma ha un sedere sporgente, una pancia sporgente e un seno sporgente. Piedi e testa a punta come fossero due coni alle sommità del corpo. Il viso non inciso, le braccia son leggermente accennate, le curve invece ci sono, prorompenti in 22 centimetri di materiale che la compongono.

Eppure c’è chi non vede.

Olindo Zambelli era un operaio che negli anni ‘20 del Novecento stava scavando le fondamenta di un edificio nei pressi di Savignano, la proprietà del “Signor Rossi Vincenzo detto Bandiera”. Un giorno durante i lavori trova un ammasso di pietra simile a un sasso e se lo porta a casa. Di sassi durante gli scavi ce ne sono molti eppure lui decide di portarsi a casa proprio quello o forse anche altri, ma non è dato sapere. Guardando per bene la forma non nota nessuna linea, nessuna incisione, solo un ammasso di pietra a punta. Così lo porta con sé, lo mette sopra al camino di casa e mentre mangia qualche noce lo utilizza per schiacciarne il guscio. Il suo schiaccianoci personale. Ogni giorno utilizza un oggetto dal valore oggi inestimabile per schiacciare le sue noci. La leggenda dice che lo mostra prima a qualcuno: a sua moglie, al segretario comunale e a persone di fiducia… ma nessuno vede niente.

E allora chi è che salva la bella statuina? Si chiama Giuseppe Graziosi, scultore abbastanza noto all’epoca che viene a sapere del ritrovamento e decide di comprarlo intuendone il valore. Parla con l’operaio e lo convince ad avere la Venere in cambio di due quintali d’uva. Olindo Zambelli prende l’uva e la consegna senza problemi.

La statuina viene così ceduta a Ugo Antonielli, direttore del Reale Museo Preistorico Pigorini a Roma, il quale analizza l’oggetto e lo espone come “la più bella per esecuzione e la più grande fra quante del genere erano state finora ritrovate.”

Oggi la Venere schiaccianoci è visibile a tutti. A chi ha gli occhi per vedere qualcosa a prescindere dal contesto in cui si trova. E viene riconosciuta come uno dei più importanti ritrovamenti italiani di arte preistorica.

 

 

 

 

Rosachiara Pardini

 

 

Santa Pudenziana a Roma e il suo mosaico particolare

Via Urbana, Roma, quartiere Monti. Scendendo la strada sulla destra c’è lei. La basilica Pudenziana. Molto piccola e molto semplice, tanto isolata da sfuggire all’occhio. Santa Pudenziana non è come Santa Prassede. Non è come Sant’Agnese o Santa Costanza o San Clemente o Sant’Ignazio. Santa Pudenziana è piccola e spoglia. Fa fatica a farsi notare tra una cupola e l’altra. A Roma è difficile farsi notare, nonostante sia stata tra le prime basiliche a nascervi. Costruita sulla domus del senatore Pudente forse nel II secolo, padre di Pudenziana e Prassede, e convertito poi al cristianesimo, viene trasformata in chiesa nel IV. Ma pochi fronzoli le sono stati messi addosso. Le ricostruzioni, le ristrutturazioni e le modernizzazioni sono state tante e ripetute, senza renderla mai un punto di attrazione della città. I turisti non ci sono e le folle neppure. Non c’è molto da guardare. Una normale basilica, in stile rinascimentale e un po’ barocco, con un’unica navata (originariamente erano tre), un tetto a volte e una cupola affrescata da nessun artista di spicco. Ma qualcosa da guardare c’è.

Basilica Santa Pudenziana, Roma

C’è un mosaico absidale. Un mosaico antichissimo, risalente al 390. Per molto tempo si è pensato fosse il primo mosaico absidale arrivato a Roma, affermazione poi smentita dai mosaici absidali di Santa Costanza che lo anticipano di trent’anni. Ma nonostante questo il mosaico di Pudenziana ha qualcosa in più. L’iconografia mostra Cristo Pantocrator (sovrano di tutte le cose) sul trono con la sua aureola e gli apostoli che sono diventati dieci anziché dodici dopo il rifacimento dell’altare. Ci sono due donne che potrebbero essere Prassede e Pudenziana, o potrebbero essere i simboli della Roma pagana e della Roma cristiana (ancora argomento di polemica). C’è una città sullo sfondo che potrebbe essere Gerusalemme oppure Roma. Ci sono l’angelo, il bue, il leone e l’aquila: i quattro viventi dell’apocalisse. Ma non sono questi il di più. Fino a qui può essere un’iconografia come un’altra.

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Il di più infatti sta nella croce. La croce sopra la figura di Cristo. È la prima volta in cui a Roma appare l’iconografia di Cristo con la croce. Il trono, l’aureola, il libro in mano, Cristo seduto e Cristo in piedi. Sono tutte caratteristiche ben sedimentate nella rappresentazione iconografica di Gesù, ma non la croce. La croce per la prima volta arriva nella capitale cristiana in Santa Pudenziana. Arriva per la prima volta in una chiesa che si fa fatica a notare. Che è tutt’ora più un luogo dove praticare che non da visitare. Visitata poco, guardata poco, conosciuta poco in una città dove le chiese non si lasciano desiderare. E forse è proprio questo a renderla una chiesa con qualcosa in più. Con un silenzio che ormai alle chiese non appartiene più.