Intervista immaginaria a Adele Bloch-Bauer, la Giuditta di Gustav Klimt.

Perché Giuditta?

Perché per Klimt facevo parte di quelle che vengono chiamate femme fatale. E io sono Giuditta. L’eroina ebrea che riesce a sedurre anche le bestie brutali e poi a ucciderle.

Giuditta I, Gustav Klimt, 1901, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

Uccide per davvero?

Non direi…

E Klimt è una bestia brutale?

Klimt? Assolutamente no. Ma io e Klimt non siamo stati mai insieme. Nonostante le voci dicano che… ma non è così. Si pensava che qualsiasi donna venisse ritratta da un artista fosse sua amante, ma non è così. A volte e anche spesso e anche nel mio caso, si creava un puro e semplice rapporto di creazione. Io lo ispiravo e lui si lasciava ispirare. A entrambi questo bastava. Le voci di quello che la gente dice non vanno mai ascoltate. E poi ero sposata.

Adele Bloch-Bauer (1881-1925)

Una sposa felice?

Io felice non lo sono di natura, però Ferdinand mi voleva bene. Aveva diciassette anni in più di me eppure facevamo la stessa vita. Allora la differenza di età non contava poi così tanto, non è come adesso. Le donne non avevano poi tutta questa emancipazione. A me sarebbe piaciuto andare all’università ad esempio e magari chissà, creare qualcosa di mio un giorno. Ma noi donne non potevamo. Così ho iniziato ad aiutarlo nella sua impresa e davamo ricevimenti su ricevimenti a casa. Questa era la nostra vita.

E Klimt quando è entrato a farne parte?

Faceva parte della combriccola che invitavamo a casa. Faceva parte delle belle menti. Veniva soprannominato Frauenversteher, l’intenditore di donne. Fu Ferdinand a chiedergli di ritrarmi. Alcuni potrebbero pensare che si fosse dato la zappa sui piedi… ma come ho già detto, non bisogna ascoltare quello che pensa la gente. Non se pensa male.  Tra me e lui non è mai successo niente. Non ho mai tradito mio marito.

Come mai l’ha ritratta come Giuditta?

Io vengo da una famiglia ebraica. Quel quadro era destinato ai miei genitori, è stato fatto per loro. E Giuditta è un bel personaggio nell’ebraismo, non trova? È proprio un bel personaggio. È bello vedersi nel ruolo di qualcun altro.

Vuole dire che è un ruolo che non le appartiene?

Beh, io cosparsa di oro con la testa di Oloferne smozzata che appare di scorcio non credo che mi appartenga molto. Ma in fondo qualcosa c’è. Era capace di crearmi in un modo in cui non mi sarei mai vista, ma grazie a lui sono riuscita a farlo. Capisce cosa intendo? Se guarda i quadri di Klimt, i suoi soggetti e la sua pittura, sono tutti molto lontani dalla realtà. Tutto questo oro ovunque e le linee e i colori. Non somigliano alla realtà. Eppure realtà. Come se la restituisse con qualcosa in più. Lui la prende, la disfa, la rifa’ e te la da’. Oro, oro ovunque. Tutti i quadri così dorati. Ognuno con un suo significato. Non trova?

E la sua famiglia?

Lo apprezzò molto. Chiesi poi a mio marito dopo la mia morte di cederlo alla Österreichische Galerie Belvedere. Volevo rimanesse a Vienna, la mia città. La città di Klimt. La città in cui doveva rimanere. E Ferdinand fu fedele. Fino all’arrivo del Reich. Nel 1938, quando l’Austria si unì alla Germania e quei balordi si presero tutto compreso il mio quadro. La mia famiglia fuggì e al mio quadro cambiarono il titolo. Woman in gold. Non sono d’accordo sul titolo. Sarebbe dovuto rimanere Giuditta. Ma va bene così.

Woman in gold?

Sì. La donna in oro. Non era proprio quello il senso. O forse in fondo sì. O forse ognuno ha il suo.

E dopo? Chi lo ha preso il quadro?

Mia nipote, Maria Altmann, dopo essere scappata dall’Austria ritornò anni e anni dopo a recuperare il quadro. La mia Giuditta. Recuperò i quadri rubati alla nostra famiglia dai nazisti. La mia Giuditta. Ma non riuscì a riprenderli tutti.

Si dice sia stata una grossa perdita per la vostra famiglia.

Quale perdita? Questa perdita? Quello che abbiamo perso sono cose. Oro. Quadri. Quadri d’oro. Solo cose. Non abbiamo perso quello che hanno perso tanti altri. Ma questo molti fanno fatica a capirlo, o forse semplicemente lo dimenticano. Lo capiscono, ma lo dimenticano.

 

 

 

Un segreto nella Chiesa di San Giorgio Maggiore a Napoli.

Napoli. Piazza Duomo. Sono tanti a conoscerlo, a esserci entrati. Ma dopo il Duomo c’è un’altra piazzetta. Si chiama piazzetta Crocelle ai Mannesi. E in quella piazzetta c’è una chiesa. Si chiama Chiesa di San Giorgio Maggiore. E in quella chiesa c’è un segreto. Un segreto svelato da non molto.

Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

L’edificio è stato costruito tra la fine del IV e gli inizi del V secolo e poi nel tempo ristrutturato varie volte. Oggi la struttura risale alla seconda metà dell’ottocento. La facciata è semplice e senza troppe decorazioni, sorretta da colonne con capitelli compositi e capitelli corinzi. Ma non è questo il punto. Quando si entra, in fondo, si vede l’altare maggiore.

Altare, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Dietro una balaustra in marmo, in mezzo a due sculture di Angelo Viva: Orazione e Chiesa. Chi ama il Cristo velato apprezzerebbe molto anche loro. I drappeggi sono aggraziati e belli, non conosciuti abbastanza forse. C’è poi una teca con le reliquie di San Severo e un crocifisso di legno che si eleva accanto. Ma non è nemmeno questo il punto.

Dietro l’altare, in fondo all’abside sono appesi due capolavori seicenteschi alle pareti: San Giorgio e il drago sulla destra e scene di vita di San Severo sulla sinistra. Capolavori del pittore napoletano Alessio D’Elia. Ma lì sotto c’è di più. E per guardare cosa ci sia si può chiedere al custode, che se è ancora lo stesso di qualche anno fa, arriva con un bastone e vestiti trasandati e un accento difficile da capire. Prende il bastone e sposta San Giorgio e il Drago di D’Elia. Ecco che lì sotto nascosto c’è un affresco, un altro affresco di qualche decennio prima, con lo stesso soggetto ma di un altro pittore. Aniello Falcone. Pittore nato a Napoli nel ‘600 e conosciuto per la sua potenza espressiva.

San Giorgio e il Drago, 1645, Aniello Falcone, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

San Giorgio e il Drago, Aniello Falcone, 1645, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Il guardiano osserva l’affresco come fosse la prima volta anche per lui e lo racconta.

“Un enorme cavallo bianco in primo piano che porta in sella il suo padrone. Che tenacia! Riuscite a vederla? L’iracondia del drago che spalanca la bocca e la veemenza di San Giorgio con il suo fedele alleato bianco che vuole sconfiggerlo. Bianco latte come le montagne. E alle sue spalle una donna. E sotto ai piedi cadaveri morti. Che meraviglia, riuscite a vederla? Che confusione, che emozione. Riuscite a vederla?”

Eccolo qui il segreto. Quello che non tutti riescono a vedere, ma chi vuole può farlo.

Perché non ha funzionato? Perché è stato nascosto? Un altro segreto non ancora svelato.

 

Santa Pudenziana a Roma e il suo mosaico particolare

Via Urbana, Roma, quartiere Monti. Scendendo la strada sulla destra c’è lei. La basilica Pudenziana. Molto piccola e molto semplice, tanto isolata da sfuggire all’occhio. Santa Pudenziana non è come Santa Prassede. Non è come Sant’Agnese o Santa Costanza o San Clemente o Sant’Ignazio. Santa Pudenziana è piccola e spoglia. Fa fatica a farsi notare tra una cupola e l’altra. A Roma è difficile farsi notare, nonostante sia stata tra le prime basiliche a nascervi. Costruita sulla domus del senatore Pudente forse nel II secolo, padre di Pudenziana e Prassede, e convertito poi al cristianesimo, viene trasformata in chiesa nel IV. Ma pochi fronzoli le sono stati messi addosso. Le ricostruzioni, le ristrutturazioni e le modernizzazioni sono state tante e ripetute, senza renderla mai un punto di attrazione della città. I turisti non ci sono e le folle neppure. Non c’è molto da guardare. Una normale basilica, in stile rinascimentale e un po’ barocco, con un’unica navata (originariamente erano tre), un tetto a volte e una cupola affrescata da nessun artista di spicco. Ma qualcosa da guardare c’è.

Basilica Santa Pudenziana, Roma

C’è un mosaico absidale. Un mosaico antichissimo, risalente al 390. Per molto tempo si è pensato fosse il primo mosaico absidale arrivato a Roma, affermazione poi smentita dai mosaici absidali di Santa Costanza che lo anticipano di trent’anni. Ma nonostante questo il mosaico di Pudenziana ha qualcosa in più. L’iconografia mostra Cristo Pantocrator (sovrano di tutte le cose) sul trono con la sua aureola e gli apostoli che sono diventati dieci anziché dodici dopo il rifacimento dell’altare. Ci sono due donne che potrebbero essere Prassede e Pudenziana, o potrebbero essere i simboli della Roma pagana e della Roma cristiana (ancora argomento di polemica). C’è una città sullo sfondo che potrebbe essere Gerusalemme oppure Roma. Ci sono l’angelo, il bue, il leone e l’aquila: i quattro viventi dell’apocalisse. Ma non sono questi il di più. Fino a qui può essere un’iconografia come un’altra.

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Il di più infatti sta nella croce. La croce sopra la figura di Cristo. È la prima volta in cui a Roma appare l’iconografia di Cristo con la croce. Il trono, l’aureola, il libro in mano, Cristo seduto e Cristo in piedi. Sono tutte caratteristiche ben sedimentate nella rappresentazione iconografica di Gesù, ma non la croce. La croce per la prima volta arriva nella capitale cristiana in Santa Pudenziana. Arriva per la prima volta in una chiesa che si fa fatica a notare. Che è tutt’ora più un luogo dove praticare che non da visitare. Visitata poco, guardata poco, conosciuta poco in una città dove le chiese non si lasciano desiderare. E forse è proprio questo a renderla una chiesa con qualcosa in più. Con un silenzio che ormai alle chiese non appartiene più.

Tracey Emin in 3 opere

Tracey Emin (Croydon, Regno Unito, 1963)

My Bed, 1998

Tracey Emin, My Bed, 1998

Fazzoletti arricciati, mozziconi, preservativi sporchi o impacchettati, contraccettivi, antidepressivi, asciugamani, peluche, della biancheria macchiata, una cintura e delle bottiglie mezze piene e mezze vuote. È il letto disfatto di Tracey Emin dove ha vissuto per quattro giorni dopo una battuta d’arresto dovuta a una relazione sentimentale.

“Nel ’98 ho avuto un terribile break down. Ho passato quattro giorni a letto semicosciente”

Per quattro giorni ci vive dentro. Ci fuma, ci beve, ci fa sesso, ma non quello bello, dice. Ci piange e ci si soffia il naso. Fa tutto lì dentro per quattro lunghissimi giorni. Le lenzuola sono talmente accartocciate da aver assorbito i suoi movimenti. Come se si fossero adattate e assemblate al suo corpo. Pieghe, solchi, grovigli e sporcizia. C’è tutto in quelle lenzuola esattamente come nel suo corpo.

“Dopo quattro giorni mi sono alzata per bere un po’ d’acqua. Ero in condizioni pietose, ero disidratata e riuscivo a malapena ad aprire gli occhi. Ho guardato il letto per tornarci sopra, ma l’ho trovato disgustoso. Faceva schifo, era sporco e puzzava. Ma poi ho pensato, non è disgustoso. Non è affatto disgustoso”

Un letto con un materasso morbido che l’ha tenuta lontana da terra. Coperta o scoperta, intatta o sfatta, cosciente, non cosciente… in qualsiasi condizione fosse il letto l’ha salvata. La prende, la sostiene e la salva. Così l’artista non arriccia più il naso quando lo guarda e non storce più la bocca. Prende tutte le cose lì intorno e le mette in una sacca. Poi prende il letto così com’è e lo porta a esporre. Gli risistema tutte le cose intorno ed ecco l’opera in Galleria.

Diventa così sua opera simbolo e fantasma del suo passato.

“Adesso non sono più così. Guardo quel letto e non sono più così. Provo dolcezza quando lo guardo. Provo dolcezza per la disperazione che riuscivo a provare quando ero più giovane. Quando sei giovane ti disperi così tanto. Con gli anni diventi più robusto, impari a sopportare. Quando guardo quel letto so che non tornerà più quella cosa lì, quelle cose non mi appartengono più”

E tra tutte quelle cose c’è una cintura nel mezzo del tappeto. Una cintura che quando l’artista era giovane metteva in vita. Adesso le starebbe giusto a una coscia.

“Te l’ho detto, con gli anni diventi più robusto”

Anche se forse trasformare la disperazione in una bella cosa vuol dire essere già un po’ robusti.

 

Everyone I Have ever slept with/My tent , 1963-‘95

Tracey Emin, Everyone I Have ever slept with, 1963-1995

Everyone I Have ever slept with o My tent  è la tenda da campeggio in cui Tracey Emin scrive tutti i nomi di tutte le persone con cui ha dormito. 102 nomi. Così intitolata e mal interpretata, i nomi che scrive non sono le persone con cui va a letto, ma quelle con cui il letto lo condivide, dal ’63, anno di nascita, al ‘95. Sua nonna, suo fratello, gli amanti, gli amici e anche i due bambini suoi mai nati. Dormire con qualcuno è l’atto più intimo si possa fare.

“Non dormire con chi non ami”

Tracey Emin, Everyone I Have ever slept with, 1963-1995

L’opera esposta alla mostra collettiva Minky Manky alla South London Gallery diventa il punto di attrazione per il pubblico. Quando lo spettatore ficca la testa dentro e poi la tira fuori pensa con chi ha dormito, con chi ha condiviso letto, sonno e, o, intimità. E al centro scritto molto in grande:

“Con me stesso, sempre con me stesso, senza dimenticarlo mai”

Emin lo descrive come un lavoro doloroso e poco facile e che nel 2004 viene distrutto. Ma non da lei, da un incendio nel magazzino del Momart di Londra. L’artista non lo realizza di nuovo “Le emozioni che ho sentito dal ’63 al ’95 le ho sentite dal ’63 al ’95. Non sarebbe più la stessa cosa”

 

Sad shower in New York, 1995

Tracey Emin, Sad Shower in New York, 1995

L’intimità del letto si trasferisce nella doccia. Sad shower è un disegno dell’artista fatto dopo un viaggio a New York. Patetica e scoraggiata. Così si descrive e così si ritrae. Patetica e scoraggiata sotto la doccia. Molto spesso quando viaggia si sente così e Sad shower rappresenta il momento di isolamento e introspezione che porta con se’. Il momento in cui si sciacqua, si scrolla, pulisce e risciacqua. Insapona, improfuma. È il momento in cui si guarda. Fa uscire. E si ripete. Nuda si guarda. E si ripete. Quello che è e quello che fa. Quello che cambia. La doccia è il pulitore dell’anima. Che non vuol dire necessariamente togliersi di dosso qualcosa. Ma semplicemente ripulirlo. E quando viaggi qualcosa ripulisci sempre. Qualcosa scrolli e risciacqui.

 

 

 

 

Il bacio di Brancusi e il suicidio d’amore. Intervista immaginaria a Tatiana Rachewskaïa

Come ti chiami?

Tatiana. Tatiana Rachewskaïa.

Tatiana Rachewskaïa, cimitero di Montparnasse, Parigi

Quanti anni hai?

  1. Ho 23 anni e sono nata a Kiev nel 1887.

In pochi conoscono la tua storia. Eppure Brancusi ha scolpito per te Le Basier. Sei tu una delle figure ritratte, giusto?

Non credo proprio pensasse a me mentre la scolpiva, ma sicuramente sono io quella seppellita lì sotto. Non ho mai conosciuto Brancusi, non era nemmeno famoso ai tempi. Lo conosceva Salomon. So che dopo la mia morte ha voluto fargli o farmi o farci un regalo, per quanto potesse valere. Scolpire un uomo e una donna avvinghiati… noi due mentre ci baciamo. Ha scolpito un bacio e l’ha messo sopra la mia tomba, a Montparnasse. E quello è diventato il nostro bacio. È bello, non trovi?

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi

Oh sì, e non sono il solo… ma che ci facevi a Montparnasse? Più che altro, cosa ci fai nella tomba?

Se non fossi mai arrivata a Montparnasse probabilmente non mi troverei nemmeno lì sotto. Ad ogni modo, mi ero trasferita a Parigi per studiare medicina. Volevo diventare un medico. Avevo 23 anni, mi sono fermata a quell’età. Un po’ presto, no? Comunque… vengo da una famiglia aristocratica e non avevano problemi a sostenere le spese per i miei studi. Così sono andata a Parigi e mi sono iscritta all’Institut Pasteur, Rue du Dr Roux, ed è lì che ho conosciuto Salomon. Salomon Marbais, un giovane medico nato in Romania. L’uomo più bello che abbia mai incontrato.

È lì che è nata la vostra storia?

Sì. All’istituto. Centro di studi per guarire le persone. Mentre io al contrario mi sono ammalata. Soffrire d’amore è una malattia vera e propria, sai? Si può morire, e a me è successo. Morta per amore.

Non ti sei ammalata però, ti sei suicidata…

Cosa cambia? Ho solo accelerato i tempi, sarei morta comunque.

Perché non era corrisposto?

Questi non sono affari che ti riguardano.

Mi dispiace, non volevo. Torniamo alla statua allora. È Salomon quindi che ha chiesto a Constantin Brancusi una statua per la tua tomba?

Sì. Salomon e Constantin erano amici. Apprezzava molto l’arte di Constantin nonostante fosse solo agli inizi. Aveva già scolpito un bacio. La sua prima scultura d’arte moderna, era il 1907. A Salomon piaceva molto, così decise che era quella la rappresentazione che voleva per me al cimitero, e Brancusi ne fece una non uguale uguale ma molto simile.

E secondo te vi rappresenta?

Sono due forme molto semplici. È praticamente un blocco di pietra quadrato con due figure incise dentro. E le due figure sono quasi uguali, come fossero alla pari. Dici che ci rappresenta? Dici che io e lui siamo uguali? Siamo alla pari? Io direi di no. Sono due figure uguali e ridotte all’essenziale. Brancusi diceva che la semplicità non è altro che una complessità risolta… forse lo è anche l’amore, no? e nel nostro caso è stata risolta male. Adesso le due figure stanno lì sopra. Avvinghiate sopra di me.

Sono dieci anni che la tua famiglia manda avanti una battaglia con lo Stato francese. Non so se ti hanno aggiornata. La tua famiglia vorrebbe prendersi l’opera, dice che gli spetta. Ed è un’opera che può ambire al valore di 40 o addirittura 50 milioni di dollari. Se vincessero si metterebbero un bel po’ di soldi in tasca i tuoi parenti. Lo Stato però non cede. Dice che appartiene ai cittadini e a tutti quelli che visitano il cimitero di Montparnasse. È un’opera pubblica e al pubblico deve appartenere. Tu da quale parte ti schieri?

Schierarmi? Sono morta da più di un secolo. Cosa importa a me non importa più ormai. Ma non sono ne’ i soldi ne’ il pubblico di certo.

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi

Rembrandt con il giudizio degli altri

Rembrandt è già un nome grande nei Paesi Bassi e ha solo poco più di vent’anni. Tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Principi e principesse vogliono i suoi ritratti da appendere al muro nei loro grandi e maestosi palazzi. I critici scrivono di lui. Critici come Costantijn Huygens, addetto alla cultura del Paese, lo definisce come l’eroico futuro dell’arte olandese. Lo definisce così ancor prima che gli altri se ne accorgano. Lo definisce così ed ecco che la fama esplode. Il re della drammatizzazione. Il re della luce e dei sentimenti. Un genio che riesce con un pennello a mettere emozioni su tela in un modo tutto suo, molto distante da quello che l’arte ufficiale ai tempi richiedeva. Elogi di qua ed elogi di là. E poco dopo, il 1630. L’anno in cui viene chiamato dalla corte olandese all’Aja per una commissione dopo l’altra che avrebbero fatto di lui l’artista di corte, avviandolo in una carriera lunga e sicura, con una paga sicura, in un posto sicuro.

Ma lui non ci va. Preferisce Amsterdam. La città del commercio. È proprio in quegli anni infatti in cui Amsterdam vive il suo grande boom trasformandosi in economia globale: il recondito porto di aringhe e cereali diventa supermercato mondiale, il suo commercio si estende dalle Indie orientali al Brasile e chi ha bisogno di vino francese o di seta italiana o di pelliccia, tabacco, zucchero… è tutto lì, va lì a prenderselo. E anche l’arte cambia. Invece di immagini di chiesa e sacralità, si passa al richiamo sensuale dei piaceri e del mondo terreno. E Rembrandt casca a pennello.

Rembrandt e La Ronda di Notte, Rembrandt e il Ratto di Europa, Rembrandt e le Lezioni di anatomia del dottor Tulp. Sono gli anni in cui il figlio di un mugnaio e nipote di un fornaio da’ il meglio di se’. Con pennellate vive e crostose, stoffe e rughe minuziosamente ritratte e giochi di luce, Rembrandt si fa spazio e produce le sue opere più famose costruendo dieci anni gloriosi. Si sposa con la sua amata Saskia e compra una bella magione. Colleziona opere d’arte e riempie il salone d’ingresso con busti classici e dozzine di quadri. Tutto quasi perfetto.

Eppure non tutti apprezzano i suoi drammi. Alcuni capolavori subiscono lamentele e alcuni committenti risultano insoddisfatti.

Nel 1642 un tal dei tali molto potente chiede un quadro con soggetto, oggi ignoto, al pittore. Per la prima volta un committente è così insoddisfatto del risultato che si rifiuta di pagare l’artista. Cinquecento fiorini non sborsati. Rembrandt ritarda con il tempo le consegne e le lamentele continuano: ‘troppo disinvolto’ , ‘troppa libertà’ , ‘I canoni dell’arte sono troppo stravolti con lui’. Così a lamentarsi del pittore non sono solo i committenti. Finisce anche sul libretto nero dei critici, o meglio dei connaiseurs.

E chi proprio tra questi è pronto a remargli contro? Costantijn Huygens. Lo stesso addetto alla cultura che lo aveva lanciato a corte pochi anni prima, elogiandolo ed encomiandolo. Nel 1644 il critico d’arte pubblica le sue maligne frasette sull’incapacità del pittore di restare fedele ai suoi modelli.

Rembrandt risponde. Risponde con Satira della critica d’arte, un disegno a penna e inchiostro, dove ritrae un ammasso di conoscitori d’arte impegnati a criticare un’opera. Sulla destra c’è un tipo alto con il cappello alto e con un dito sul labbro. Esamina un’opera sorretta dall’assistente o dal servo o da chicchessia al centro, che forse non è nemmeno un’opera, ma uno specchio riflesso. Perché?

Rembrandt, Satira della critica d’arte, 1644, The Metropolitan Museum of Art, New York

Sopra il quadro-specchio c’è una figura piegata un po’ in avanti con la faccia da scimmia che porta al collo l’onorifica catena d’oro che viene consegnata solitamente agli artisti dai nobili committenti. E perché la danno a uno scimmione? Come se i critici fossero incapaci di riconoscere i geni dalle scimmie, o un quadro da uno specchio.

Sulla sinistra invece, c’è il conoscitore per eccellenza: un uomo con un cappello in testa e due orecchie d’asino lunghe lunghe, mentre la sua mano indica l’opera. Le tipiche orecchie d’asino che nella mitologia si era accattato il re Mida per aver giudicato male il talento canoro di Apollo.

E infine, ciliegina sulla torta, il pensiero dell’artista. Una figura in primo piano che guarda fuori dal disegno, con tratti non dissimili da quelli di Rembrandt, con le brache calate mentre si pulisce il didietro.

Non è questo il motivo determinante la caduta del pittore, ma uno dei piccoli frammenti che trasforma un vaso in piccoli cocci.

Figura contraddistinta, sia nel disegno che nella vita. Che prende la puzza sotto al naso degli altri e il loro giudizio e li trasforma in carta igienica. Figlio di un mugnaio e pecora nera nell’arte. Vissuto in una città che gli ha dato soldi, fama e amore e poi glieli ha tolti. Forse tutto questo a corte non sarebbe successo. Forse il critico Huygens non gli avrebbe nemmeno remato contro se lui gli avesse dato retta. E invece si ritrova a essere una pecora in difficoltà davanti al grande potere del giudizio. Un giudizio che mette in dubbio la sua genialità.

Perché a far le cose con la capoccia propria, il più delle volte, si va a sbattere. Ma non indossare maschere è meritevole, e prima o dopo viene a galla. Non sempre, ma spesso si spera.

La principessa Danae e la pioggerellina d’oro.

Chi è Danae? E perché viene sempre dipinta con monetine d’oro intorno?

Danae e la pioggia d’oro, Rembrandt, 1636, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Danae secondo la mitologia è la principessa d’Argo, la figlia del re d’Argo, ovvero la figlia di Acrisio. È molto bella, conosciuta ad Argo perché molto bella, ma ciò nonostante impossibilitata a ereditare il trono del padre. Acrisio si chiede chi sarà a ereditarlo e un oracolo gli risponde “sarà il tuo nipotino e ti ucciderà”. Il nipotino che non è ancora stato concepito da Danae sarà Perseo. Per evitarlo, re Acrisio chiude la sua bella principessa in una torre cosicché nessuno possa toccarla, deflorarla e metterla incinta.

Nessuno possa, a parte Giove, perché Giove nella mitologia è la suprema divinità dell’Olimpo, il dio di tutti gli dei e dei mortali e quindi può far tutto e aver tutto. Così si trasforma in pioggia d’oro, entra nella torre e feconda la principessa.

Danae e la pioggia d’oro. Questo è il momento di Danae che l’arte rappresenta di più. E ognuno lo rappresenta a modo proprio.

Nell’antichità questa iconografia è sempre stata presa come punto di riferimento per condividere l’erotismo. In grandi anfore e crateri veniva dipinta la fanciulla mezza nuda che accoglie le monetine d’oro dentro di se’.

Danae e la pioggia d’oro, anonimo, cratere, 450-425 a.c, Museo del Louvre, Parigi

Nel medioevo invece l’iconografia viene ribaltata, come tante altre iconografie vengono ribaltate, perché la religione è più importante. Così Danae diventa per un periodo una vergine. Il simbolo non più della bellezza erotica ma della castità. Danae pudica e coperta nella torre mentre guarda la pioggia d’oro diventata luce divina.

Nel Rinascimento tutto cambia di nuovo, la vera Danae in origine riesce fuori e rinasce con interpretazioni moltiplicate che rendono il mito sempre più complesso. C’è chi la dipinge mentre aspetta la pioggia. Con lo sguardo attento di chi desidera quello che ancora non è arrivato. Chi la dipinge quando la pioggia è già lì sopra di lei e lei godereccia si mette la mano tra le gambe (Goethe questa scena la definisce come ‘la più bella di tutte le scene’).

Un letto, una Danae nuda, monetine d’oro, a volte un cane e una nutrice. È questa l’iconografia standard del mito.

Danae e la pioggia d’oro, Primaticcio, 1537-1540

E perché il cane? Il cane è simbolo di fedeltà. Allora vuol dire che Danae è una tipa fedele! Forse questo è un amore fedele!

A volte appare anche un piccolo cupido dietro al letto. Questi sono glie elementi dell’amore.

Danae e la pioggia d’oro, Tiziano, 1553 ca, Museo del Prado, Madrid

Ma poi. Poi c’è la nutrice. E la nutrice non porta niente di buono. Perché solitamente è una vecchiaccia brutta e rugosa che si affanna con la bava alla bocca a raccogliere con il suo panno in grembo tutte le monetine che può. Quando invece il suo compito sarebbe quello di fare la guardia. Alcuni dicono che le monetine se le tiene per se’, mentre altri dicono che le raccoglie per cederle a Danae. In entrambi i casi a ogni modo l’antagonista rimane sempre lei. La vecchia rugosa. La bassezza umana di chi è attaccato troppo al denaro. Perché dovrebbe fare la guardia mentre dei cerchi di metallo le fanno perdere la testa. Una vecchia, brutta e anche infedele. E la bella Danae principessa invece? lei ne esce salva. Perché Danae non rappresenta la bassezza umana quando Danae e nutrice un poco si somigliano? Entrambe vicine a quella pioggerellina luccicosa, suprema divinità dell’Olimpo, il dio di tutti gli dei e dei mortali, che può far tutto e avere tutto.

“La favola di Danae corrotta da Giove in pioggia d’oro, ci da’ ad intendere che questo tanto stimato metallo sforza le altissime mura, i castissimi petti, la fede, l’honore, e tutte quelle cose che sono di maggior pregio e stima in questa vita” (Le Metamorfosi di Ovidio).

Sophie Calle in 3 opere.

Sophie Calle. Nasce a Parigi il 9 ottobre 1953 e negli anni ’70 inizia a fotografare. Non sapeva cosa farne della sua vita e così comincia. Insegue, osserva, fotografa. L’arte di Sophie Calle è osservare.

Sophie Calle (9 ottobre 1953, Parigi)

Les dormeurs (1979)

Sophie Calle, Les Dormeurs, 1979

Sophie Calle, Les Dormeurs, 1979

29 persone in 8 giorni. 29 persone che in otto giorni dormono nel letto della Calle mentre la Calle li riprende con i suoi scatti. È questa l’opera che presenta nel 1980 alla Biennale di Parigi e che la fa entrare nel mondo dell’arte. Una quantità infinita di fotografie di persone che dormono nel suo letto. Inconsce, l’artista le osserva e per ogni ora di sonno scatta una foto. Osserva chi non sa di essere osservato. E chi incosciente non si osserva nemmeno da solo. Non c’è niente di manipolato o controllato e programmato nel sonno dei soggetti. Nessuna posa e nessun respiro e nessun occhio aperto che guarda altrove. Eppure l’osservazione della Calle manipola il tutto, mostrando quello che lei vuole mostrare, degli altri.

Sophie Calle, Les Dormeurs, 1979

Voir la mer (2011)

Sophie Calle, Voir la mer, 2011

Sophie Calle, Voir la mer, 2011

Noi non possiamo vedere quello che vedono loro come lo vedono loro. Non possiamo vederli in un primo momento e in quel momento lì, in cui guardano quello che stanno guardando. Perché sono girati di spalle e con riservatezza. C’è una donna con un velo sui capelli, quattro bambini, un uomo con delle stampelle, un uomo con un cappello rosso e altri abitanti di Istanbul. Tutti di spalle. Sono tutti abitanti della periferia di Istanbul che guardano il mare per la prima volta e tutti di spalle. Come se l’artista avesse voluto lasciare per loro il momento più importante e riprendere i loro occhi in un secondo momento. Dopo aver visto quello che hanno visto. Lasciando lo spettatore interrogarsi su quanto quello sguardo sia cambiato tra l’uno e l’altro momento. E quanto sarebbe stato diverso se non fosse stato ripreso.

The Shadow (1981)

Sophie Calle, The Shadow, 1981

Calle chiede a sua madre di assumere un investigatore che la segua durante la giornata e le scatti delle foto. Senza dare altre indicazioni. E così accade. L’artista viene fotografata quando esce di casa e quando guarda una vetrina e quando si siede a bere un caffè durante la sua giornata. Sa di essere osservata e seguita e fotografata, ma non sa come e non sa quando. Creando una sorta di conscio e inconscio nell’opera che paradossalmente non è nemmeno sua, ma dell’investigatore che sta scattando quello che vuole e come e quando vuole. Con lo spettatore che continua a chiedersi cosa ci sia di vero in quegli scatti. Avrebbe fatto le stesse cose se non fosse finita su degli scatti visti da migliaia di persone? Forse poco importa perché forse scatti o non scatti, in quello che si fa, quando lo si fa, si spera sempre di essere notati.

 

Rosachiara Pardini

 

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Vagina Painting di Shigeko Kubota

Shigeko Kubota, Vagina painting, 1965, Perpetual Fluxfest, Cinematheque NY

Una vagina e un pennello. Non serve molto. Shigeko Kubota (Nigata, 1937 – New York, 2015) utilizza una vagina, la sua, e un pennello attaccato alla vagina. Perché lo fa? Perché il genio creativo può essere anche una prerogativa femminile e perché niente di meglio di un pennello e una vagina rappresentano la creazione e la femminilità, ma non solo.

L’artista d’avanguardia giapponese del movimento Fluxus, scomparsa nel 2015, si mette all’opera nel 1965 durante il Perpetual Fluxfest, al Cinematheque di New York.

Entra nella stanza, si mette china sopra un foglio bello grande, ha un pennello attaccato alla patata e inizia a disegnare.

Shigeko Kubota, Vagina painting, 1965, Perpetual Fluxfest, Cinematheque NY

Eppure Kubota non è la prima a fare un lavoro del genere. Le geisha dei secoli scorsi, quelle dei ceti sociali bassi, che non erano solo geisha, ma prostitute, chi più e chi meno raffinate, per intrattenere i loro ospiti si davano alla scrittura. Tra le tante attività d intrattenimento che avevano c’era anche quello della scrittura. E l’arte della scrittura in giappone, lo Shodō, non era cosa da niente. Era un’arte raffinata e delicata. Sottile. E così iniziavano: prendevano un pennello, lo posavano sulla vagina e iniziavano a scrivere. E gli spettatori incantati le guardavano mentre queste elevavano la prostituzione a un’arte più alta. E così fa anche Kuboto. Eleva la sua vagina a un’arte più alta.

Disegna linee astratte e rosse. Sembrano schizzi di sangue. Come se a uscire fuori dall’interno di Kubota fosse del sangue, oltre che arte. E non un sangue qualunque, ma quello femminile, che non è solo una mestruazione, ma un po’ il centro di tutto. È la fertilità. È quello di cui siam fatti.

Vagina painting la intitola. Come fosse un action painting di Pollock ma utilizzando ben altro. Action. Painting. Azione. Creare. Fare tutto quello che si può fare, purché ci porti in alto. A elevarci. Agire per elevarci. Forse è proprio questa l’arte di elevarsi.

William Pope L., il pescatore delle assurdità sociali, striscia al MoMA di NY.

MoMA. New York. Tra la undicesima e la cinquantatreesima strada, il 21 ottobre 2019, il museo d’arte contemporanea inaugura il suo nuovo riallestimento. La solita struttura e la solita entrata e i soliti cinque piani. Le vecchie e storiche opere ci sono ancora, ma convivono con le new entry che sono tantissime e nuovissime.

William Pope L. (Newark, New Jersey, 1955)

Tra queste, al terzo piano, nella sala The Edward Steichen Galleries c’è lui: il pescatore delle assurdità sociali. William Pope L. Non ci sarà per sempre, perché ospite fino a febbraio. Una mostra interamente dedicata all’artista, intitolata: member: Pope.L, 1978-2001.

Chi lo conosce? In America in tanti e altrove in pochi.

Pope L. nasce a Newark nel New Jersey nel 1955 e dagli anni ‘70 raccoglie e tira fuori assurdità sociali in giro per la città. La retrospettiva si concentra sulle performance tra gli anni ’70 e i primi 2000: performance dove Pope usa il suo corpo per le strade della Mela Grande. È così che nel 1978 da’ inizio alle street action che lui chiama Crawl: strisciare.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

In The Great White Way vestito con indosso una tutina da Superman e uno skateboard per appoggiare la schiena quando è troppo stanco, striscia dalla statua della libertà fino al Bronx. Strisciare diventa uno dei suoi marchi: strisciare per le strade. Perché? Sono gli anni ‘70 e ‘80. Anni in cui New York ha un problema serio con i barboni. Ci sono barboni ovunque. Meravigliose persone sdraiate per strada e che vivono per strada. Alcuni di loro sono anche parenti e amici dello stesso Pope. Ma lui non veste mai come loro: o da Superman o da business man.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

Il 18 luglio 1991 c’è un’afa che arriva fino a 40 gradi. Eppure Pope striscia attorno Tompkins Square indossando una maglietta bianca e un completo nero, bianco nero non per caso, tenendo in mano un vasetto con un fiore giallo. Dopo un isolato viene fermato da un passante che a sua volta ferma un poliziotto perché indispettito.

‘Lasciatemi fare il mio lavoro’ risponde l’artista e il suo lavoro lo fa per davvero.

Strisciare, vestito con un completo perfetto per l’ufficio. Strisciare, strisciare e strisciare tra un grattacielo e un altro. Stesi a terra a rifiutare la verticalità dei palazzi alti, a metaforizzare il non avere con l’avere. l’orizzontale e il verticale. Il basso e l’alto.

Tompkins Square Crawl, William Pope L., 1991, MoMA, New York

C’è un fiore. In tutto ciò Pope tiene in mano un fiore. Un fiore giallo. Il fiore di chi semina qualcosa che può crescere bene e tanto, luminoso e giallo.

Ma non sono solo crawl le sue. Nel 1994 partorisce Cow Commercial, la mucca commerciale. Una mucca di plastica che Pope porta in braccio con se’ tra i marciapiedi di New York come fosse un oracolo, recitando pensieri religiosi e filosofici confinanti con l’assurdo. Ed è proprio la mucca ad essere protagonista. E cosa c’entra la mucca di Pope con la filosofia e la religione? Una mucca pubblicitaria per opporsi alla filosofia e alla religione? Forse.

Cow Commercial aka Black Domestic, William Pope L., 1994, MoMA, New York

L’opera allude alla pubblicità molto di moda e molto discussa negli Stati Uniti d’America negli anni ’90. La pubblicità statunitense per eccellenza. Got Milk. Campagna pubblicitaria che invita i cittadini americani a comprare e a consumare più latte. E loro lo fanno. Comprano e consumano più latte, riempiendo scaffali e scaffali di latte di tutti i tipi ovunque.

Pope così prende la sua mucca e la addobba con tre elementi:

  1. Un’etichetta con su scritto sold appiccicata sulla pancia.
  2. Una bottiglia di vino vuota e un’etichetta con su scritto race che le tappa la bocca.
  3. E una bandierina americana infilata nell’ano.

Come fanno questi tre elementi a stare insieme su una mucca bianca e nera, produttrice di latte?

Di razza bianca, nera o qualsiasi essa sia, non è questo che importa, quello che importa è che la mucca, madre produttrice e artefice di consumo, è un animale venduto. Venduto perché pronta a ingerire tutto quello che c’è da ingerire. Con una bottiglia vuota etichettata race che le tappa la bocca. Una race un po’ ubriaca che ha ingerito quello che doveva.

E nell’altro orifizio?

Una bandierina americana. Perché chi meglio dell’America sa farti ingerire qualcosa? La padrona del consumismo e della riproduzione. Pronta a vendere l’invendibile. E a prendere tutti quanti per il sedere sventolando la sua bandiera.

 

 

Rosachiara Pardini

 

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