Dettaglio nascosto: il signore nell’anello.

Trafalgar Square. National Gallery. Piano 2. Sala 56. Tutti concentrati sul ritratto fiammingo di Jan Van Eyck dei Coniugi Arnolfini: marito e moglie per la mano centrati in sala e centrati nel quadro. Colorati, ben posati e raccontati da innumerevoli dettagli nascosti sparsi, difficili da notare tra uno spintone e l’altro.

“Bellissimo, maestosissimo e un sacco di –issimo! Ma c’è troppa gente!” e te ne vai alla ricerca di qualcosa che non abbia ronzii e spintoni intorno.

“Ma le cose che non hanno ronzii e spintoni intorno non sono belle abbastanza!”

Coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck, 1434 circa, National Gallery, Londra

Non è vero! Almeno non nella sala 56 della National Gallery. C’è un quadro proprio lì accanto che puoi scrutare da solo e in santa pace.

“Arnolfini di qua e Arnolfini di là” tutti lo conoscono e tutti lo vogliono. I protagonisti di sala 56 del secondo piano.Ma la donna esposta a pochi centimetri da Van Eyck ha qualcosa che la Signora Arnolfini non ha. L’artista, anche lui fiammingo, è Robert Campin che intorno al 1435 dipinge Ritratto di Donna.

Ritratto di donna, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

Chi è la donna? Anonima. Senza cognome. Nessuno stemma e nessun panno sfarzoso. Solo un velo bianco e pesantissimo con qualche spilla da balia in vista che la tiene imbacuccata scoprendole il viso. Un viso paffutello, giovane e pulito. Con naso a punta, labbra a cuore, pupille luccicanti e sguardo serio e concentrato verso qualcosa che Campin mostra solo a lei. Lo sfondo è nero e il suo viso pallidissimo.

E chi è l’uomo incorniciato accanto? Probabilmente suo marito. Anche lui anonimo, sbarbato con un turbante rosso in testa o meglio chiamato capperone, su sfondo nero, meno pallido e con lo sguardo concentrato anche lui verso qualcosa che non puoi vedere.

Ritratto di uomo, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

La didascalia non si esprime più di tanto e nemmeno la descrizione sul sito web del museo: L’uomo e la donna di Campin erano un dittico (il motivo di finto marmo presente sul retro di entrambi i primi piani lo suggerisce), adesso separato in due quadri messi uno accanto all’altro. La tecnica è olio su tavola. Le dimensioni 40×28 cm. La data di esecuzione 1435 circa…

Ma quindi cosa c’è di speciale? Che cos’ha questa donna senza un nome che la bellissima signora Arnolfini non ha?

Ha un anello sull’anulare sinistro. Un anello, o forse una fede d’oro con un rubino incastonato.

E quindi?

E quindi dentro al rubino c’è un ritratto. Minuscolo. Visibile solo con una lente d’ingrandimento. Forse il più piccolo ritratto esistente.

Il ritratto di un uomo, su un rubino, sull’anulare sinistro… è il marito sicuramente! E invece no. Il marito è sbarbato, mentre l’uomo ritratto nell’anello è un capellone barbuto e baffuto.

Ritratto di donna, dettaglio autoritratto, Robert Campin, 1435 ca, National Gallery, Londra

Eppure è strano. Perché il rubino nella storia dell’arte del quattro e cinquecento è il simbolo matrimoniale della fertilità.

Quindi chi è il capellone baffuto? L’amante?

Non si sa. Non si è ancora scoperto. Alcuni studiosi pensano possa essere l’autoritratto dell’artista perché descritto come battagliero ribelle e fumino nei pochi frammenti biografici rimasti, senza darne descrizioni però sull’aspetto fisico. E non per forza i “fumini” dell’epoca hanno barba, baffi e capelli.

Ma se fosse proprio lui, cosa vuol dire? Vuol dire che Campin è l’amante della donna paffutella con la bocca a cuore, sposata con lo sbarbato accanto a lei? Un autoritratto minuscolo così che il marito non lo vedesse, ma lei lo potesse tenere per se’?

O magari non c’è nessuna storia d’amore e nessun tradimento spenellato sotto al naso. Magari è solo una firma d’artista un po’ più originale.

O magari non è nessuna di queste ipotesi molto blande, seppur belle fossero vere.

La Venere di Savignano. Tra i più importanti ritrovamenti dell’arte preistorica.

Cos’è quest’oggetto appuntito? È uno schiaccianoci? No. Ma c’è chi per un po’ di tempo lo ha visto così.

Venere di Savignano, Reale Museo Nazionale Preistorico Etnografico, Roma

In realtà è una statuetta che rappresenta una Venere. La Venere oggi chiamata di Savignano perché rinvenuta proprio nei pressi di questa località vicino Modena nel 1925. Ha origini antichissime. Neolitiche o addirittura Paleolitiche.

La sua forma ha un sedere sporgente, una pancia sporgente e un seno sporgente. Piedi e testa a punta come fossero due coni alle sommità del corpo. Il viso non inciso, le braccia son leggermente accennate, le curve invece ci sono, prorompenti in 22 centimetri di materiale che la compongono.

Eppure c’è chi non vede.

Olindo Zambelli era un operaio che negli anni ‘20 del Novecento stava scavando le fondamenta di un edificio nei pressi di Savignano, la proprietà del “Signor Rossi Vincenzo detto Bandiera”. Un giorno durante i lavori trova un ammasso di pietra simile a un sasso e se lo porta a casa. Di sassi durante gli scavi ce ne sono molti eppure lui decide di portarsi a casa proprio quello o forse anche altri, ma non è dato sapere. Guardando per bene la forma non nota nessuna linea, nessuna incisione, solo un ammasso di pietra a punta. Così lo porta con sé, lo mette sopra al camino di casa e mentre mangia qualche noce lo utilizza per schiacciarne il guscio. Il suo schiaccianoci personale. Ogni giorno utilizza un oggetto dal valore oggi inestimabile per schiacciare le sue noci. La leggenda dice che lo mostra prima a qualcuno: a sua moglie, al segretario comunale e a persone di fiducia… ma nessuno vede niente.

E allora chi è che salva la bella statuina? Si chiama Giuseppe Graziosi, scultore abbastanza noto all’epoca che viene a sapere del ritrovamento e decide di comprarlo intuendone il valore. Parla con l’operaio e lo convince ad avere la Venere in cambio di due quintali d’uva. Olindo Zambelli prende l’uva e la consegna senza problemi.

La statuina viene così ceduta a Ugo Antonielli, direttore del Reale Museo Preistorico Pigorini a Roma, il quale analizza l’oggetto e lo espone come “la più bella per esecuzione e la più grande fra quante del genere erano state finora ritrovate.”

Oggi la Venere schiaccianoci è visibile a tutti. A chi ha gli occhi per vedere qualcosa a prescindere dal contesto in cui si trova. E viene riconosciuta come uno dei più importanti ritrovamenti italiani di arte preistorica.

 

 

 

 

Rosachiara Pardini

 

 

Un segreto nella Chiesa di San Giorgio Maggiore a Napoli.

Napoli. Piazza Duomo. Sono tanti a conoscerlo, a esserci entrati. Ma dopo il Duomo c’è un’altra piazzetta. Si chiama piazzetta Crocelle ai Mannesi. E in quella piazzetta c’è una chiesa. Si chiama Chiesa di San Giorgio Maggiore. E in quella chiesa c’è un segreto. Un segreto svelato da non molto.

Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

L’edificio è stato costruito tra la fine del IV e gli inizi del V secolo e poi nel tempo ristrutturato varie volte. Oggi la struttura risale alla seconda metà dell’ottocento. La facciata è semplice e senza troppe decorazioni, sorretta da colonne con capitelli compositi e capitelli corinzi. Ma non è questo il punto. Quando si entra, in fondo, si vede l’altare maggiore.

Altare, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Dietro una balaustra in marmo, in mezzo a due sculture di Angelo Viva: Orazione e Chiesa. Chi ama il Cristo velato apprezzerebbe molto anche loro. I drappeggi sono aggraziati e belli, non conosciuti abbastanza forse. C’è poi una teca con le reliquie di San Severo e un crocifisso di legno che si eleva accanto. Ma non è nemmeno questo il punto.

Dietro l’altare, in fondo all’abside sono appesi due capolavori seicenteschi alle pareti: San Giorgio e il drago sulla destra e scene di vita di San Severo sulla sinistra. Capolavori del pittore napoletano Alessio D’Elia. Ma lì sotto c’è di più. E per guardare cosa ci sia si può chiedere al custode, che se è ancora lo stesso di qualche anno fa, arriva con un bastone e vestiti trasandati e un accento difficile da capire. Prende il bastone e sposta San Giorgio e il Drago di D’Elia. Ecco che lì sotto nascosto c’è un affresco, un altro affresco di qualche decennio prima, con lo stesso soggetto ma di un altro pittore. Aniello Falcone. Pittore nato a Napoli nel ‘600 e conosciuto per la sua potenza espressiva.

San Giorgio e il Drago, 1645, Aniello Falcone, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

San Giorgio e il Drago, Aniello Falcone, 1645, Chiesa San Giorgio Maggiore, Napoli

Il guardiano osserva l’affresco come fosse la prima volta anche per lui e lo racconta.

“Un enorme cavallo bianco in primo piano che porta in sella il suo padrone. Che tenacia! Riuscite a vederla? L’iracondia del drago che spalanca la bocca e la veemenza di San Giorgio con il suo fedele alleato bianco che vuole sconfiggerlo. Bianco latte come le montagne. E alle sue spalle una donna. E sotto ai piedi cadaveri morti. Che meraviglia, riuscite a vederla? Che confusione, che emozione. Riuscite a vederla?”

Eccolo qui il segreto. Quello che non tutti riescono a vedere, ma chi vuole può farlo.

Perché non ha funzionato? Perché è stato nascosto? Un altro segreto non ancora svelato.

 

Santa Pudenziana a Roma e il suo mosaico particolare

Via Urbana, Roma, quartiere Monti. Scendendo la strada sulla destra c’è lei. La basilica Pudenziana. Molto piccola e molto semplice, tanto isolata da sfuggire all’occhio. Santa Pudenziana non è come Santa Prassede. Non è come Sant’Agnese o Santa Costanza o San Clemente o Sant’Ignazio. Santa Pudenziana è piccola e spoglia. Fa fatica a farsi notare tra una cupola e l’altra. A Roma è difficile farsi notare, nonostante sia stata tra le prime basiliche a nascervi. Costruita sulla domus del senatore Pudente forse nel II secolo, padre di Pudenziana e Prassede, e convertito poi al cristianesimo, viene trasformata in chiesa nel IV. Ma pochi fronzoli le sono stati messi addosso. Le ricostruzioni, le ristrutturazioni e le modernizzazioni sono state tante e ripetute, senza renderla mai un punto di attrazione della città. I turisti non ci sono e le folle neppure. Non c’è molto da guardare. Una normale basilica, in stile rinascimentale e un po’ barocco, con un’unica navata (originariamente erano tre), un tetto a volte e una cupola affrescata da nessun artista di spicco. Ma qualcosa da guardare c’è.

Basilica Santa Pudenziana, Roma

C’è un mosaico absidale. Un mosaico antichissimo, risalente al 390. Per molto tempo si è pensato fosse il primo mosaico absidale arrivato a Roma, affermazione poi smentita dai mosaici absidali di Santa Costanza che lo anticipano di trent’anni. Ma nonostante questo il mosaico di Pudenziana ha qualcosa in più. L’iconografia mostra Cristo Pantocrator (sovrano di tutte le cose) sul trono con la sua aureola e gli apostoli che sono diventati dieci anziché dodici dopo il rifacimento dell’altare. Ci sono due donne che potrebbero essere Prassede e Pudenziana, o potrebbero essere i simboli della Roma pagana e della Roma cristiana (ancora argomento di polemica). C’è una città sullo sfondo che potrebbe essere Gerusalemme oppure Roma. Ci sono l’angelo, il bue, il leone e l’aquila: i quattro viventi dell’apocalisse. Ma non sono questi il di più. Fino a qui può essere un’iconografia come un’altra.

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Mosaico absidale, basilica Santa Pudenziana, Roma

Il di più infatti sta nella croce. La croce sopra la figura di Cristo. È la prima volta in cui a Roma appare l’iconografia di Cristo con la croce. Il trono, l’aureola, il libro in mano, Cristo seduto e Cristo in piedi. Sono tutte caratteristiche ben sedimentate nella rappresentazione iconografica di Gesù, ma non la croce. La croce per la prima volta arriva nella capitale cristiana in Santa Pudenziana. Arriva per la prima volta in una chiesa che si fa fatica a notare. Che è tutt’ora più un luogo dove praticare che non da visitare. Visitata poco, guardata poco, conosciuta poco in una città dove le chiese non si lasciano desiderare. E forse è proprio questo a renderla una chiesa con qualcosa in più. Con un silenzio che ormai alle chiese non appartiene più.

Guerrilla Girls. Le artiste gorilla.

Guerrilla Girls, New York City

Ragazze gorilla, ragazze guerrilla. Guerrilla Girls. Artiste femministe attiviste. La parola guerrilla si confonde con gorilla perché portano delle enormi maschere a forma di scimmia e non se le tolgono mai. Nemmeno per le interviste.

È così che stabiliscono la loro immagine: durante un’intervista. Si presentano ‘siamo le Guerrilla’ e un giornalista inglese sbaglia a fare lo spelling. Scrive Gorilla. Loro non si offendono perché dei faccioni da scimmioni cattivi e oscuri si adattano bene ai loro intenti.

Fanno arte. Ma non è pittura e non è scrittura e non è architettura o progettistica. Sembra più pubblicità. Arte fatta di grandi manifesti e volantini e cartelloni che dicono cose e pensano cose e fanno pensare a cose. A cosa… a proteggere e a spingere fuori la propria identità e il proprio genere, il proprio colore della pelle. L’identità che mascherano dietro a una faccia da scimmia perché tutti devono essere uguali a tutti, non la mascherano al mondo intero nella loro produzione artistica quando cominciano negli anni ’80 a tappezzare New York di volantini e a scrivere che tutti devono essere uguali a tutti, anche nell’arte.

Si riuniscono come fossero un ghetto al femminile a partire dall’85. Il MoMA l’anno prima allestisce una mostra: an international survey of recent painting and sculpture (1984). MoMa. New York. Arte contemporanea. Arte nuova nuovissima nella città nuova nuovissima dove le cose nuove nuovissime arrivano per prime primissime, ma non del tutto. La mostra ospita 169 artisti in totale. Un totale squilibrato perché tra questi compaiono solo 13 donne. 156 contro 13. È da qui che le scimmie guerriere si riuniscono contro musei e gallerie di New York per poi espandersi ovunque per il non spazio o poco spazio dato all’interno di essi. Studiano statistiche e il loro studio accurato le porta a constatare che la donna nell’arte viene messa da parte un po’ troppo rispetto all’uomo. Non è una constatazione sbalorditiva né originale né innovativa, eppure innovativamente iniziano a renderlo noto cospargendo la città di pensieri polemici, proteste e parole, riproduzioni di quadri famosi rielaborati e frasi su frasi.

Guerrilla Girls, we seel white bread, 1987

Come l’odalisca di Ingres. La longilinea e liscia e bella odalisca di Ingres.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La Grande Odalisca, 1814, Museo del Louvre

Cosa c’entra con un gorilla pelosissimo?

Guerrilla Girls Talk Back, 1989, Tate Modern

C’entra quando le guerrilla la mettono su un manifesto tutto giallo e le piazzano sulla faccia il mascherone di uno scimmione che domanda:

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Potrebbe essere. Una donna nuda e ben in posa è sempre bella. Vestita, svestita, castana, bionda, rozza, grossa, lunga. Va comunque più o meno bene. Ma una donna che arriva con un quadro sotto al braccio e dice ‘questo l’ho fatto io’ forse un po’ meno.

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Le Guerrilla tirano fuori una percentuale e la scrivono sotto l’odalisca. L’85 per cento dei quadri esposti al Met ha come soggetto una donna nuda, ma solo il 5 per cento dei quadri esposti è stato dipinto da una donna. E perché? davvero solo perché le donne bamboline sono così tanto carine come manichine che non possono fare altro? Perché la virilità maschile ha divorato la fragilità femminile fin da sempre? La cruda legge del più forte contro il più debole? Forse nei tempi antichi è stato fatto uno studio accurato e ignaro in cui risultava che il cervello maschile fosse più brillante di quello femminile. O forse non esiste nessuno studio e nessun motivo ben preciso e il tutto fa pensare se sia stata la donna a tarparsi le ali da sola o l’uomo ad approfittarsene. L’uomo ad alimentare sempre di più il maschilismo e ad approfittarsene. E adesso maschilismo e femminismo finiscono per divorarsi l’un l’altro. Un mostro che crea un altro mostro?

Guerrilla Girls, I am not a Feminist, 2009

Chissà se già fin dall’inizio dei tempi era così. In fondo all’inizio, inizio del mondo, c’eravamo già entrambi. Un uomo e una donna. Una scimmia e un’altra scimmia.

 

 

https://www.tgcom24.mediaset.it/speciale-vernice-week/

Dettaglio nascosto: il signore nell’anello.

Trafalgar Square. National Gallery. Piano 2. Sala 56. Tutti concentrati sul ritratto fiammingo di Jan Van Eyck dei Coniugi Arnolfini: marito e moglie per la mano centrati in sala e centrati nel quadro. Colorati, ben posati e raccontati da innumerevoli dettagli nascosti sparsi, difficili da notare tra uno spintone e l’altro.

“Bellissimo, maestosissimo e un sacco di –issimo! Ma c’è troppa gente!” e te ne vai alla ricerca di qualcosa che non abbia ronzii e spintoni intorno.

“Ma le cose che non hanno ronzii e spintoni intorno non sono belle abbastanza!”

Coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck, 1434 circa, National Gallery, Londra

Non è vero! Almeno non nella sala 56 della National Gallery. C’è un quadro proprio lì accanto che puoi scrutare da solo e in santa pace.

“Arnolfini di qua e Arnolfini di là” tutti lo conoscono e tutti lo vogliono. I protagonisti di sala 56 del secondo piano.Ma la donna esposta a pochi centimetri da Van Eyck ha qualcosa che la Signora Arnolfini non ha. L’artista, anche lui fiammingo, è Robert Campin che intorno al 1435 dipinge Ritratto di Donna.

Ritratto di donna, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

Chi è la donna? Anonima. Senza cognome. Nessuno stemma e nessun panno sfarzoso. Solo un velo bianco e pesantissimo con qualche spilla da balia in vista che la tiene imbacuccata scoprendole il viso. Un viso paffutello, giovane e pulito. Con naso a punta, labbra a cuore, pupille luccicanti e sguardo serio e concentrato verso qualcosa che Campin mostra solo a lei. Lo sfondo è nero e il suo viso pallidissimo.

E chi è l’uomo incorniciato accanto? Probabilmente suo marito. Anche lui anonimo, sbarbato con un turbante rosso in testa o meglio chiamato capperone, su sfondo nero, meno pallido e con lo sguardo concentrato anche lui verso qualcosa che non puoi vedere.

Ritratto di uomo, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

La didascalia non si esprime più di tanto e nemmeno la descrizione sul sito web del museo: L’uomo e la donna di Campin erano un dittico (il motivo di finto marmo presente sul retro di entrambi i primi piani lo suggerisce), adesso separato in due quadri messi uno accanto all’altro. La tecnica è olio su tavola. Le dimensioni 40×28 cm. La data di esecuzione 1435 circa…

Ma quindi cosa c’è di speciale? Che cos’ha questa donna senza un nome che la bellissima signora Arnolfini non ha?

Ha un anello sull’anulare sinistro. Un anello, o forse una fede d’oro con un rubino incastonato.

E quindi?

E quindi dentro al rubino c’è un ritratto. Minuscolo. Visibile solo con una lente d’ingrandimento. Forse il più piccolo ritratto esistente.

Il ritratto di un uomo, su un rubino, sull’anulare sinistro… è il marito sicuramente! E invece no. Il marito è sbarbato, mentre l’uomo ritratto nell’anello è un capellone barbuto e baffuto.

Ritratto di donna, dettaglio autoritratto, Robert Campin, 1435 ca, National Gallery, Londra

Eppure è strano. Perché il rubino nella storia dell’arte del quattro e cinquecento è il simbolo matrimoniale della fertilità.

Quindi chi è il capellone baffuto? L’amante?

Non si sa. Non si è ancora scoperto. Alcuni studiosi pensano possa essere l’autoritratto dell’artista perché descritto come battagliero ribelle e fumino nei pochi frammenti biografici rimasti, senza darne descrizioni però sull’aspetto fisico. E non per forza i “fumini” dell’epoca hanno barba, baffi e capelli.

Ma se fosse proprio lui, cosa vuol dire? Vuol dire che Campin è l’amante della donna paffutella con la bocca a cuore, sposata con lo sbarbato accanto a lei? Un autoritratto minuscolo così che il marito non lo vedesse, ma lei lo potesse tenere per se’?

O magari non c’è nessuna storia d’amore e nessun tradimento spenellato sotto al naso. Magari è solo una firma d’artista un po’ più originale.

O magari non è nessuna di queste ipotesi molto blande, seppur belle fossero vere.