Dettaglio nascosto: il signore nell’anello.

Trafalgar Square. National Gallery. Piano 2. Sala 56. Tutti concentrati sul ritratto fiammingo di Jan Van Eyck dei Coniugi Arnolfini: marito e moglie per la mano centrati in sala e centrati nel quadro. Colorati, ben posati e raccontati da innumerevoli dettagli nascosti sparsi, difficili da notare tra uno spintone e l’altro.

“Bellissimo, maestosissimo e un sacco di –issimo! Ma c’è troppa gente” e te ne vai alla ricerca di qualcosa che non abbia ronzii e spintoni intorno.

“Ma le cose che non hanno ronzii e spintoni intorno non sono belle abbastanza!”

Coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck, 1434 circa, National Gallery, Londra

Non è vero, almeno non nella sala 56 della National Gallery. C’è un quadro proprio lì accanto che puoi scrutare da solo e in pace.

“Arnolfini, Arnolfini” tutti lo conoscono e tutti lo vogliono. I protagonisti di sala 56 del secondo piano.Ma la donna esposta a pochi centimetri da Van Eyck ha qualcosa che la Signora Arnolfini non ha. L’artista, anche lui fiammingo, è Robert Campin che intorno al 1435 dipinge Ritratto di Donna.

Ritratto di donna, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

Chi è la donna? Anonima. Senza cognome. Nessuno stemma e nessun panno sfarzoso. Solo un velo bianco e pesantissimo con qualche spilla da balia in vista che la tiene imbacuccata scoprendole il viso. Un viso paffutello, giovane e pulito. Con naso a punta, labbra a cuore, pupille luccicanti e sguardo serio e concentrato verso qualcosa che Campin mostra solo a lei. Lo sfondo è nero e il suo viso pallidissimo.

E chi è l’uomo incorniciato accanto? Probabilmente suo marito. Anche lui anonimo, sbarbato con un turbante rosso in testa o meglio chiamato capperone, su sfondo nero, meno pallido e con lo sguardo concentrato anche lui verso qualcosa che non puoi vedere.

Ritratto di uomo, Robert Campin, 1435 circa, National Gallery, Londra

La didascalia non si esprime più di tanto e nemmeno la descrizione sul sito web del museo: L’uomo e la donna di Campin erano un dittico (il motivo di finto marmo presente sul retro di entrambi i primi piani lo suggerisce), adesso separato in due quadri messi uno accanto all’altro. La tecnica è olio su tavola. Le dimensioni 40×28 cm. La data di esecuzione 1435 circa…

Ma quindi cosa c’è di speciale? Che cos’ha questa donna senza un nome che la bellissima signora Arnolfini non ha?

Ha un anello sull’anulare sinistro. Un anello, o forse una fede d’oro con un rubino incastonato.

E quindi?

E quindi dentro al rubino c’è un ritratto. Minuscolo. Visibile solo con una lente d’ingrandimento. Forse il più piccolo ritratto esistente.

Il ritratto di un uomo, su un rubino, sull’anulare sinistro…potrebbe essere il marito, ma il marito è sbarbato, mentre l’uomo ritratto nell’anello è un capellone barbuto e baffuto.

Ritratto di donna, dettaglio autoritratto, Robert Campin, 1435 ca, National Gallery, Londra

Eppure è strano. Perché il rubino nella storia dell’arte del quattro e cinquecento è il simbolo matrimoniale della fertilità.

Quindi chi è il capellone baffuto?

Non si sa. Non si è ancora scoperto. Alcuni studiosi pensano possa essere l’autoritratto dell’artista perché descritto come battagliero ribelle e fumino nei pochi frammenti biografici rimasti, senza darne descrizioni però sull’aspetto fisico. E non per forza i “fumini” dell’epoca hanno barba, baffi e capelli.

Ma se fosse proprio lui, cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire che Campin è l’amante della donna? Un autoritratto minuscolo così che il marito non lo vedesse, ma lei lo potesse tenere per se’?

O forse è una semplice firma d’artista un po’ più originale, senza alcuna storia dietro, seppur bella fosse vera.

Merda d’artista, Piero Manzoni

Merda d’artista. Contenuto netto gr 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.

Merda d’artista, 1961, Museo del ‘900 (n.80), Milano

Sono in realtà 90 vecchi barattoli di carne in scatola che Manzoni compra, svuota e riempie con del gesso. Nessuno in mezzo al pubblico lo vede perché le scatolette sono chiuse. Sull’etichetta firma ripetutamente il suo nome e scrive in grande Merda d’artista, prendendo in giro non solo chi la guarda ma anche l’arte stessa. L’arte che negli anni ’60 comincia a cambiare e diventa la cosiddetta ‘arte concettuale’, movimento artistico in cui l’espressione è sopra la costruzione e il concetto è sopra l’oggetto. Perché possibile che una scatoletta vecchia di carne che si spaccia per essere merda non sia merda per davvero, ma valga tanti tanti soldi? e possibile che così tante persone la amino? Manzoni lo dimostra. Dimostra come l’arte sia cambiata per sempre e il mercato insieme a lei. Un mercato disposto a comprare qualsiasi cosa a cifre folli purché abbia la firma di chi conta addosso. Chi è che conta? L’artista. La sua firma. Il suo pensiero. Che prende in giro tutti quanti e per questo a tutti piace.

Fiato d’artista, 1960

In un’altra opera, Fiato d’artista (1960), Manzoni ripete il concetto di decadimento usando il suo fiato. Ma spreca fiato per cosa? Per dei palloncini che vogliono somigliare a corpi femminili. Prende una modella, bella, ben disposta e con un bel sorriso in vista. La mette su una sedia ferma e immobile e lui soffia e gonfia e sbuffa dentro a un palloncino. Vuole ritratte la donna così come la vede lui: un palloncino gonfio. Nella speranza che non sia solo questo. Poi mette il palloncino a forma di palla, di pera o di mela, a seconda di come gli viene, su un piedistallo come fosse una statua. Strano ma vero, un’altra opera che vale tanti soldi.

Sculture viventi, 1961
Base Magica, 1961

C’è un altro modo però con cui tratta il corpo femminile ed è quello di Sculture viventi (’61). Durante le riprese per il Filmgiornale SEDI a Milano, prende alcune modelle nude e inizia a marchiarle come mucche scrivendo il suo nome e cognome in qualche parte del corpo. In quest’opera si ripete il concetto di ripetitività, di firma autorevole. In quest’opera è l’essere vivente che diventa oggetto o forse il contrario. Anche con Base Magica (’61) fa un po’ la stessa cosa. prende una base di legno aggiungendo magica nel titolo. Traccia due impronte di piedi sopra la scatola invitando chiunque a salirci sopra così che tutti possano diventare statue viventi e opere d’arte per un minuto. E forse è proprio questa una tra le varie capacità dell’artista. Prendere in giro il pubblico facendolo sentire importante per un minuto.

La sposa messa a nudo dai suoi scapoli di Duchamp

La Mariée mise à nu par ses célibataires, Marcel Duchamp, 1915-’23, Philadelphia Museum of Art

Un’opera complessa. Si dice che sia tra le più complesse del Novecento. Duchamp ha impiegato circa dieci anni per farla. Taccuini, disegni, bozzetti. Ma in realtà è molto semplice. Perché non le ha dato un significato, ma solo un titolo. La sposa messa a nudo dai suoi scapoli/La Mariée mise à nu par ses célibataires. E sia la sposa che gli scapoli sono rappresentati su due grandi lastre di vetro trasparente con lamine di metallo, polvere e fili di piombo. Due lastre ben divise tra loro. Ognuna al posto suo.

La Mariée mise à nu par ses célibataires, disegno dettaglio (la sposa)

In alto la sposa. Una sposa che va un po’ interpretata, immaginata. Nuda. Immobile. Spogliata. Emana una scia, una nuvola con tre riquadri che forse rappresentano i suoi pensieri, la natura, l’elevazione verso l’alto. Qualcosa di sottile, come la sua sagoma: due gambe secche secche attaccate a un bacino un po’ più largo. Qualcosa di fragile.

La Mariée mise à nu par ses célibataires, disegno dettaglio (gli scapoli)

In basso invece ecco gli scapoli. Manichini, abiti, divise. Qui il corpo manca. Ci sono solo dei vestiti a rappresentarli che sembrano uniformi. Il corazziere, l’inserviente, il barista, il becchino, il capostazione, il poliziotto, … Categorie (maschili) e non individui, che girano intorno a una giostra. Una giostra in movimento a differenza dell’immobilità che appare nella lastra di sopra. Avanti e indietro avanti e indietro come farebbero i loro genitali su un letto. Degli automi privi di identità personale e fisica che si muovono non accanto a una nuvola, ma su una giostra che guida la macchina accanto. Una macinatrice. Macinare che significa ridurre in polvere, in frammenti. E cosa macina? Della cioccolata. E cosa rappresenta la cioccolata? Probabilmente il desiderio.

Così Duchamp rappresenta un rapporto tra uomo e donna emblematico, o meglio enigmatico. Un rapporto tra una sposa in alto senza il suo vestito e degli scapoli in basso senza i loro corpi su sue lastre di vetro trasparenti divise tra loro. Nuvole sopra e macchine sotto. Elevazione ed erotismo. Desiderio. Un desiderio frantumato da una macinatrice.

E caso vuole che il vetro cade in frantumi durante uno spostamento nel 1926.

Duchamp non si scompone. Lascia che l’opera diventi quello che le accade. Lascia che si formi della polvere sul vetro frantumato per poi appiccicargliela sopra in modo tale che non vada più via. Il caso si può forse dire che si sia adeguato all’opera perfettamente.

E quindi alla fine di tutto, cosa rappresentano queste lastre di vetro? Un rapporto umano rotto? Un simbolo femminista creato da un artista con il sesso opposto? O il rapporto tra l’uomo e la materia, l’oggetto, la macchina? O forse niente di tutto questo.

La risposta di Duchamp non è mai stata data. Questa è solo una delle tante interpretazioni date.

“L’opera si fa da sé” dice, “grazie all’artista e grazie a chi la guarda”.

Il Monumento ai non eletti di Nina Katchadourian

Nina Katchadourian (Stanford, 1968)

Stati Uniti. Al posto dei nani da giardino ci sono i cartelli elettorali che quest’anno tengono il nome di Biden o Trump.

Nina Katchadourian, artista nata a Stanford, California, nel 1968, espone anche quest’anno la sua opera Monumento ai non eletti, o meglio Il monumento dei perdenti.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Ma cosa sono intanto i cartelli da giardino negli Stati Uniti?

Sono dei cartelli venduti dalle campagne elettorali ai cittadini che presentano come logo il nome del candidato alle elezioni presidenziali. Il cittadino compra il cartello con il nome del candidato che preferisce, a un prezzo che varia dai 10 ai 15 dollari e con una dimensione che varia in base alle regole di ciascun Stato, e lo pianta nel proprio pezzo di prato per mostrare ai vicini di casa e ai passanti interessati la propria scelta.

È una tradizione che va avanti da sempre nel Paese. La prima volta che appare è stato nel 1820 per le elezioni di John Quincy Adams e man mano si è diffusa sempre di più.

“Sempre di più, ma mai come quest’anno. Quest’anno c’è un forte bisogno da parte degli americani di esprimere il proprio pensiero” dice l’artista.

 

Nina Katchadourian cosa fa? Non spiattella al pubblico chi preferisce tra un concorrente e l’altro, ma mostra semplicemente i fatti come stanno: le scelte di ogni singolo cittadino che messe insieme hanno provocato due conseguenze: la vincita di un candidato e la perdita dell’altro.

Inizia nel 2008, quando The Scottsdale Museum of Contemporary Art per il progetto Seriously funny la invita a partecipare con un’opera inedita, purché sia divertente e ironica. A quel tempo i giardini si affollavano di segnali: Barack Obama o John McCain.

“Che strana cultura che abbiamo” pensa la Katchadourian “compriamo dei cartelli per fare in modo che tutti sappiano chi abbiamo scelto”.

 

Così mette in piedi The Monument to the unelected.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, 2008

Pianta dei cartelli in vari siti del Paese creati e disegnati da lei stessa (ci sono dei volontari che si prestano a ospitarli davanti a casa propria) con sopra scritto il nome non del candidato vincitore, ma di quello perdente. Un cartello per ciascun perdente palesatosi dal 1788 ad oggi, aggiungendone uno ogni quattro anni, il giorno dopo le elezioni presidenziali.

“I perdenti vengono sempre dimenticati.”

 

E così non viene dimenticato nessuno. Con la sua opera crea una collezione del passato americano. Una collezione di tutte le scelte collettive non prese, riflettendo su quello che avrebbero potuto essere. Sul significato di una scelta. La libertà di scegliere e l’importanza di scegliere. Determinante. Su come la scelta di ciascun individuo non rimanga mai propria, ma determini in un modo o nell’altro il destino di qualcosa molto più grande.

Lo esprime attraverso dei segni, dei segnali, dei cartelli che restano per sempre mentre tutto intorno cambia.

Monument to the unelected, Nina Katchadourian, Pace Gallery New York, 2020

È dal 2008 che l’installazione viene esibita durante ciascuna elezione presidenziale sia in luoghi pubblici sia in musei e gallerie. Oggi l’installazione si trova nella galleria Pace di New York che ospita l’opera dal 18 settembre al 12 dicembre 2020.

E quest’anno tocca al cinquantanovesimo perdente.

Rembrandt con il giudizio degli altri

Rembrandt è già un nome grande nei Paesi Bassi e ha solo poco più di vent’anni. Tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Principi e principesse vogliono i suoi ritratti da appendere al muro nei loro grandi e maestosi palazzi. I critici scrivono di lui. Critici come Costantijn Huygens, addetto alla cultura del Paese, lo definisce come l’eroico futuro dell’arte olandese. Lo definisce così ancor prima che gli altri se ne accorgano. Lo definisce così ed ecco che la fama esplode. Il re della drammatizzazione. Il re della luce e dei sentimenti. Un genio che riesce con un pennello a mettere emozioni su tela in un modo tutto suo, molto distante da quello che l’arte ufficiale ai tempi richiedeva. Elogi di qua ed elogi di là. E poco dopo, il 1630. L’anno in cui viene chiamato dalla corte olandese all’Aja per una commissione dopo l’altra che avrebbero fatto di lui l’artista di corte, avviandolo in una carriera lunga e sicura, con una paga sicura, in un posto sicuro.

Ma lui non ci va. Preferisce Amsterdam. La città del commercio. È proprio in quegli anni infatti in cui Amsterdam vive il suo grande boom trasformandosi in economia globale: il recondito porto di aringhe e cereali diventa supermercato mondiale, il suo commercio si estende dalle Indie orientali al Brasile e chi ha bisogno di vino francese o di seta italiana o di pelliccia, tabacco, zucchero… è tutto lì, va lì a prenderselo. E anche l’arte cambia. Invece di immagini di chiesa e sacralità, si passa al richiamo sensuale dei piaceri e del mondo terreno. E Rembrandt casca a pennello.

Rembrandt e La Ronda di Notte, Rembrandt e il Ratto di Europa, Rembrandt e le Lezioni di anatomia del dottor Tulp. Sono gli anni in cui il figlio di un mugnaio e nipote di un fornaio da’ il meglio di se’. Con pennellate vive e crostose, stoffe e rughe minuziosamente ritratte e giochi di luce, Rembrandt si fa spazio e produce le sue opere più famose costruendo dieci anni gloriosi. Si sposa con la sua amata Saskia e compra una bella magione. Colleziona opere d’arte e riempie il salone d’ingresso con busti classici e dozzine di quadri. Tutto quasi perfetto.

Eppure non tutti apprezzano i suoi drammi. Alcuni capolavori subiscono lamentele e alcuni committenti risultano insoddisfatti.

Nel 1642 un tal dei tali molto potente chiede un quadro con soggetto, oggi ignoto, al pittore. Per la prima volta un committente è così insoddisfatto del risultato che si rifiuta di pagare l’artista. Cinquecento fiorini non sborsati. Rembrandt ritarda con il tempo le consegne e le lamentele continuano: ‘troppo disinvolto’ , ‘troppa libertà’ , ‘I canoni dell’arte sono troppo stravolti con lui’. Così a lamentarsi del pittore non sono solo i committenti. Finisce anche sul libretto nero dei critici, o meglio dei connaiseurs.

E chi proprio tra questi è pronto a remargli contro? Costantijn Huygens. Lo stesso addetto alla cultura che lo aveva lanciato a corte pochi anni prima, elogiandolo ed encomiandolo. Nel 1644 il critico d’arte pubblica le sue maligne frasette sull’incapacità del pittore di restare fedele ai suoi modelli.

Rembrandt risponde. Risponde con Satira della critica d’arte, un disegno a penna e inchiostro, dove ritrae un ammasso di conoscitori d’arte impegnati a criticare un’opera. Sulla destra c’è un tipo alto con il cappello alto e con un dito sul labbro. Esamina un’opera sorretta dall’assistente o dal servo o da chicchessia al centro, che forse non è nemmeno un’opera, ma uno specchio riflesso. Perché?

Rembrandt, Satira della critica d’arte, 1644, The Metropolitan Museum of Art, New York

Sopra il quadro-specchio c’è una figura piegata un po’ in avanti con la faccia da scimmia che porta al collo l’onorifica catena d’oro che viene consegnata solitamente agli artisti dai nobili committenti. E perché la danno a uno scimmione? Come se i critici fossero incapaci di riconoscere i geni dalle scimmie, o un quadro da uno specchio.

Sulla sinistra invece, c’è il conoscitore per eccellenza: un uomo con un cappello in testa e due orecchie d’asino lunghe lunghe, mentre la sua mano indica l’opera. Le tipiche orecchie d’asino che nella mitologia si era accattato il re Mida per aver giudicato male il talento canoro di Apollo.

E infine, ciliegina sulla torta, il pensiero dell’artista. Una figura in primo piano che guarda fuori dal disegno, con tratti non dissimili da quelli di Rembrandt, con le brache calate mentre si pulisce il didietro.

Non è questo il motivo determinante la caduta del pittore, ma uno dei piccoli frammenti che trasforma un vaso in piccoli cocci.

Figura contraddistinta, sia nel disegno che nella vita. Che prende la puzza sotto al naso degli altri e il loro giudizio e li trasforma in carta igienica. Figlio di un mugnaio e pecora nera nell’arte. Vissuto in una città che gli ha dato soldi, fama e amore e poi glieli ha tolti. Forse tutto questo a corte non sarebbe successo. Forse il critico Huygens non gli avrebbe nemmeno remato contro se lui gli avesse dato retta. E invece si ritrova a essere una pecora in difficoltà davanti al grande potere del giudizio. Un giudizio che mette in dubbio la sua genialità.

Perché a far le cose con la capoccia propria, il più delle volte, si va a sbattere. Ma non indossare maschere è meritevole, e prima o dopo viene a galla. Non sempre, ma spesso si spera.

La principessa Danae e la pioggerellina d’oro.

Chi è Danae? E perché viene sempre dipinta con monetine d’oro intorno?

Danae e la pioggia d’oro, Rembrandt, 1636, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Danae secondo la mitologia è la principessa d’Argo, la figlia del re d’Argo, ovvero la figlia di Acrisio. È molto bella, conosciuta ad Argo perché molto bella, ma ciò nonostante impossibilitata a ereditare il trono del padre. Acrisio si chiede chi sarà a ereditarlo e un oracolo gli risponde “sarà il tuo nipotino e ti ucciderà”. Il nipotino che non è ancora stato concepito da Danae sarà Perseo. Per evitarlo, re Acrisio chiude la sua bella principessa in una torre cosicché nessuno possa toccarla, deflorarla e metterla incinta.

Nessuno possa, a parte Giove, perché Giove nella mitologia è la suprema divinità dell’Olimpo, il dio di tutti gli dei e dei mortali e quindi può far tutto e aver tutto. Così si trasforma in pioggia d’oro, entra nella torre e feconda la principessa.

Danae e la pioggia d’oro. Questo è il momento di Danae che l’arte rappresenta di più. E ognuno lo rappresenta a modo proprio.

Nell’antichità questa iconografia è sempre stata presa come punto di riferimento per condividere l’erotismo. In grandi anfore e crateri veniva dipinta la fanciulla mezza nuda che accoglie le monetine d’oro dentro di se’.

Danae e la pioggia d’oro, anonimo, cratere, 450-425 a.c, Museo del Louvre, Parigi

Nel medioevo invece l’iconografia viene ribaltata, come tante altre iconografie vengono ribaltate, perché la religione è più importante. Così Danae diventa per un periodo una vergine. Il simbolo non più della bellezza erotica ma della castità. Danae pudica e coperta nella torre mentre guarda la pioggia d’oro diventata luce divina.

Nel Rinascimento tutto cambia di nuovo, la vera Danae in origine riesce fuori e rinasce con interpretazioni moltiplicate che rendono il mito sempre più complesso. C’è chi la dipinge mentre aspetta la pioggia. Con lo sguardo attento di chi desidera quello che ancora non è arrivato. Chi la dipinge quando la pioggia è già lì sopra di lei e lei godereccia si mette la mano tra le gambe (Goethe questa scena la definisce come ‘la più bella di tutte le scene’).

Un letto, una Danae nuda, monetine d’oro, a volte un cane e una nutrice. È questa l’iconografia standard del mito.

Danae e la pioggia d’oro, Primaticcio, 1537-1540

E perché il cane? Il cane è simbolo di fedeltà. Allora vuol dire che Danae è una tipa fedele! Forse questo è un amore fedele!

A volte appare anche un piccolo cupido dietro al letto. Questi sono glie elementi dell’amore.

Danae e la pioggia d’oro, Tiziano, 1553 ca, Museo del Prado, Madrid

Ma poi. Poi c’è la nutrice. E la nutrice non porta niente di buono. Perché solitamente è una vecchiaccia brutta e rugosa che si affanna con la bava alla bocca a raccogliere con il suo panno in grembo tutte le monetine che può. Quando invece il suo compito sarebbe quello di fare la guardia. Alcuni dicono che le monetine se le tiene per se’, mentre altri dicono che le raccoglie per cederle a Danae. In entrambi i casi a ogni modo l’antagonista rimane sempre lei. La vecchia rugosa. La bassezza umana di chi è attaccato troppo al denaro. Perché dovrebbe fare la guardia mentre dei cerchi di metallo le fanno perdere la testa. Una vecchia, brutta e anche infedele. E la bella Danae principessa invece? lei ne esce salva. Perché Danae non rappresenta la bassezza umana quando Danae e nutrice un poco si somigliano? Entrambe vicine a quella pioggerellina luccicosa, suprema divinità dell’Olimpo, il dio di tutti gli dei e dei mortali, che può far tutto e avere tutto.

“La favola di Danae corrotta da Giove in pioggia d’oro, ci da’ ad intendere che questo tanto stimato metallo sforza le altissime mura, i castissimi petti, la fede, l’honore, e tutte quelle cose che sono di maggior pregio e stima in questa vita” (Le Metamorfosi di Ovidio).

Vagina Painting di Shigeko Kubota

Shigeko Kubota, Vagina painting, 1965, Perpetual Fluxfest, Cinematheque NY

Una vagina e un pennello. Non serve molto. Shigeko Kubota (Nigata, 1937 – New York, 2015) utilizza una vagina, la sua, e un pennello attaccato alla vagina. Perché lo fa? Perché il genio creativo può essere anche una prerogativa femminile e perché niente di meglio di un pennello e una vagina rappresentano la creazione e la femminilità, ma non solo.

L’artista d’avanguardia giapponese del movimento Fluxus, scomparsa nel 2015, si mette all’opera nel 1965 durante il Perpetual Fluxfest, al Cinematheque di New York.

Entra nella stanza, si mette china sopra un foglio bello grande, ha un pennello attaccato alla patata e inizia a disegnare.

Shigeko Kubota, Vagina painting, 1965, Perpetual Fluxfest, Cinematheque NY

Eppure Kubota non è la prima a fare un lavoro del genere. Le geisha dei secoli scorsi, quelle dei ceti sociali bassi, che non erano solo geisha, ma prostitute, chi più e chi meno raffinate, per intrattenere i loro ospiti si davano alla scrittura. Tra le tante attività d intrattenimento che avevano c’era anche quello della scrittura. E l’arte della scrittura in giappone, lo Shodō, non era cosa da niente. Era un’arte raffinata e delicata. Sottile. E così iniziavano: prendevano un pennello, lo posavano sulla vagina e iniziavano a scrivere. E gli spettatori incantati le guardavano mentre queste elevavano la prostituzione a un’arte più alta. E così fa anche Kuboto. Eleva la sua vagina a un’arte più alta.

Disegna linee astratte e rosse. Sembrano schizzi di sangue. Come se a uscire fuori dall’interno di Kubota fosse del sangue, oltre che arte. E non un sangue qualunque, ma quello femminile, che non è solo una mestruazione, ma un po’ il centro di tutto. È la fertilità. È quello di cui siam fatti.

Vagina painting la intitola. Come fosse un action painting di Pollock ma utilizzando ben altro. Action. Painting. Azione. Creare. Fare tutto quello che si può fare, purché ci porti in alto. A elevarci. Agire per elevarci. Forse è proprio questa l’arte di elevarsi.

William Pope L., il pescatore delle assurdità sociali, striscia al MoMA di NY.

MoMA. New York. Tra la undicesima e la cinquantatreesima strada, il 21 ottobre 2019, il museo d’arte contemporanea inaugura il suo nuovo riallestimento. La solita struttura e la solita entrata e i soliti cinque piani. Le vecchie e storiche opere ci sono ancora, ma convivono con le new entry che sono tantissime e nuovissime.

William Pope L. (Newark, New Jersey, 1955)

Tra queste, al terzo piano, nella sala The Edward Steichen Galleries c’è lui: il pescatore delle assurdità sociali. William Pope L. Non ci sarà per sempre, perché ospite fino a febbraio. Una mostra interamente dedicata all’artista, intitolata: member: Pope.L, 1978-2001.

Chi lo conosce? In America in tanti e altrove in pochi.

Pope L. nasce a Newark nel New Jersey nel 1955 e dagli anni ‘70 raccoglie e tira fuori assurdità sociali in giro per la città. La retrospettiva si concentra sulle performance tra gli anni ’70 e i primi 2000: performance dove Pope usa il suo corpo per le strade della Mela Grande. È così che nel 1978 da’ inizio alle street action che lui chiama Crawl: strisciare.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

In The Great White Way vestito con indosso una tutina da Superman e uno skateboard per appoggiare la schiena quando è troppo stanco, striscia dalla statua della libertà fino al Bronx. Strisciare diventa uno dei suoi marchi: strisciare per le strade. Perché? Sono gli anni ‘70 e ‘80. Anni in cui New York ha un problema serio con i barboni. Ci sono barboni ovunque. Meravigliose persone sdraiate per strada e che vivono per strada. Alcuni di loro sono anche parenti e amici dello stesso Pope. Ma lui non veste mai come loro: o da Superman o da business man.

The Great White Way, 22 Miles, 9 Years, 1 Street, William Pope L., 2001, MoMA, New York

Il 18 luglio 1991 c’è un’afa che arriva fino a 40 gradi. Eppure Pope striscia attorno Tompkins Square indossando una maglietta bianca e un completo nero, bianco nero non per caso, tenendo in mano un vasetto con un fiore giallo. Dopo un isolato viene fermato da un passante che a sua volta ferma un poliziotto perché indispettito.

‘Lasciatemi fare il mio lavoro’ risponde l’artista e il suo lavoro lo fa per davvero.

Strisciare, vestito con un completo perfetto per l’ufficio. Strisciare, strisciare e strisciare tra un grattacielo e un altro. Stesi a terra a rifiutare la verticalità dei palazzi alti, a metaforizzare il non avere con l’avere. l’orizzontale e il verticale. Il basso e l’alto.

Tompkins Square Crawl, William Pope L., 1991, MoMA, New York

C’è un fiore. In tutto ciò Pope tiene in mano un fiore. Un fiore giallo. Il fiore di chi semina qualcosa che può crescere bene e tanto, luminoso e giallo.

Ma non sono solo crawl le sue. Nel 1994 partorisce Cow Commercial, la mucca commerciale. Una mucca di plastica che Pope porta in braccio con se’ tra i marciapiedi di New York come fosse un oracolo, recitando pensieri religiosi e filosofici confinanti con l’assurdo. Ed è proprio la mucca ad essere protagonista. E cosa c’entra la mucca di Pope con la filosofia e la religione? Una mucca pubblicitaria per opporsi alla filosofia e alla religione? Forse.

Cow Commercial aka Black Domestic, William Pope L., 1994, MoMA, New York

L’opera allude alla pubblicità molto di moda e molto discussa negli Stati Uniti d’America negli anni ’90. La pubblicità statunitense per eccellenza. Got Milk. Campagna pubblicitaria che invita i cittadini americani a comprare e a consumare più latte. E loro lo fanno. Comprano e consumano più latte, riempiendo scaffali e scaffali di latte di tutti i tipi ovunque.

Pope così prende la sua mucca e la addobba con tre elementi:

  1. Un’etichetta con su scritto sold appiccicata sulla pancia.
  2. Una bottiglia di vino vuota e un’etichetta con su scritto race che le tappa la bocca.
  3. E una bandierina americana infilata nell’ano.

Come fanno questi tre elementi a stare insieme su una mucca bianca e nera, produttrice di latte?

Di razza bianca, nera o qualsiasi essa sia, non è questo che importa, quello che importa è che la mucca, madre produttrice e artefice di consumo, è un animale venduto. Venduto perché pronta a ingerire tutto quello che c’è da ingerire. Con una bottiglia vuota etichettata race che le tappa la bocca. Una race un po’ ubriaca che ha ingerito quello che doveva.

E nell’altro orifizio?

Una bandierina americana. Perché chi meglio dell’America sa farti ingerire qualcosa? La padrona del consumismo e della riproduzione. Pronta a vendere l’invendibile. E a prendere tutti quanti per il sedere sventolando la sua bandiera.

 

 

Rosachiara Pardini

 

https://www.tgcom24.mediaset.it/speciale-vernice-week/

 

 

William Kentridge e le formiche bianche.

William Kentridge (Johannesburg, 1955)

William Kentridge (Johannesburg, 1955). Sudafricano, contemporaneo, concettuale, artista, attivista, anti razzista. Disegna, riprende, allestisce e scolpisce. Fa un po’ di tutto e in questo tutto racconta.

Racconta i suoi sensi di colpa. Che spesso corrispondono all’essere bianco in una terra nera invasa da bianchi. In una terra in cui l’apartheid è sopravvissuto nei suoi primi quarant’anni di vita e la democrazia è esplosa negli ultimi venti. Racconta le contraddizioni e le ingiustizie e il suo rapporto personale con il mondo, che tanto personale non è.

“L’artista difende le incertezze e critica le certezze di tutte le forme autoritarie esistenti. Mostra come diamo senso al mondo invece che mostrare il significato del mondo, che poi un significato vero e proprio il mondo non è che lo abbia. Mostra come siamo in grado di capire un concetto, senza mostrare quello che capiamo”

Dice Kentridge, e così ci lascia liberi di capire la sua opera.

2002. Johannesburg e un’invasione delle formiche. Avviene davvero. A Johannesburg, la città d’oro, in cui l’invasione bianca a caccia di diamanti e sberluccichii ha schiacciato negli anni quello che c’era prima. Città d’oro in cui l’invasione bianca ha piantato radici, emarginato quelle vecchie, piantato leggi malsane e malaticce. La città viene invasa da formiche. Nel 2002 tantissimi piccoli pallini neri iniziano a spargersi ovunque. L’artista li guarda e li riprende. Prende dello zucchero, una caffettiera, una matita, delle forbici e del caffè, e crea Day for night: giorno per la notte, bianco e nero, chiaro e scuro, luce e ombra. Un’opera a cortometraggio su pellicola semplicissima.

William Kentridge, Day for Night, 2003, MoMA, New York

Con dell’acqua e dello zucchero attira le formiche nel suo studio, traccia dei disegni astratti e figurativi sul pavimento: costellazioni, figure umane, segni zodiacali… aspetta che le formiche ripercorrano i sentieri già tracciati per poi iniziare a filmarle.

Apparecchia un tavolo. Lo apparecchia con degli oggetti che usano gli uomini quotidianamente: una caffettiera, una matita, una forbice e del caffè. Le formiche non dovrebbero gironzolare intorno a questi oggetti. Le formiche non dovrebbero salire sui tavoli e percorrere disegni tracciati.

William Kentridge, Day for Night, 2003, MoMA, New York

Le formiche solitamente vengono schiacciate o ammazzate con dell’insetticida. E invece le formiche di Kentridge invadono il tavolo e tutto quello che c’è sopra. Come fossero piccoli alieni che invadono un pianeta sconosciuto, un paese già abitato. Invadono un tavolo già abitato da una caffettiera, una matita, una forbice e del caffè.

Kentridge filma l’invasione invertendo la pellicola, così quello che è nero diventa bianco e quello che è bianco diventa nero.

Il bianco del tavolo diventa il nero dell’universo, e le formiche nere diventano puntini bianchi che disegnano arabeschi e invadono gli spazi come fossero astronauti. In un pianeta diverso, dove è ammissibile occupare senza morire e dove è possibile continuare a camminare. Un tavolo nero, un mondo nero. Un’opera e un pianeta in cui è possibile essere neri e bianchi allo stesso tempo, in cui si disegnano costellazioni e forme strane e figure umane allo stesso tempo. Formiche nere, formiche bianche. Camminano, camminano e disegnano. E infine cosa disegnano? In mezzo a tutti questi scarabocchi impiastricciati nello zucchero cosa disegnano?

Disegnano un uomo vitruviano.

E perché delle formiche nere, ma mascherate di bianco, intinte nello zucchero, dovrebbero disegnare un uomo vitruviano nella testa di Kentridge?

L’uomo vitruviano è la rappresentazione per eccellenza dell’uomo perfetto. L’uomo d’eccellenza. Con proporzioni perfette. Testa, mani, braccia e gambe perfette. La perfezione divina e terrestre.

Kentridge le porta a disegnare l’uomo vitruviano. Potrebbe schiacciarle, emarginarle, ucciderle con un’insetticida per formiche. Ma non le uccide con un’insetticida per formiche. Le lascia camminare sopra l’uomo perfetto, con sfondo nero e bordi bianchi.

 

Rosachiara Pardini

 

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Joseph Beuys e il coyote. I like America and America likes me.

Joseph Beuys. A parte la stanza e a parte il coyote non ha toccato altro e non ha visto altro. Non ha visto l’America. Non l’ha toccata nemmeno con un piede. Arrivato all’aeroporto di New York JFK si è fatto trasportare infetto e bendato su una barella infilata in un’ambulanza fino alla Renè Block Gallery di Downtown e si è chiuso in una stanza. Maggio 1974. Insieme a un coyote. Per tre giorni. Lui e il coyote.

“Volevo isolarmi, non vedere nient’altro oltre al coyote”.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

Ma perché proprio lui? Perché un coyote? Proprio il coyote perché è un canide lupino indigeno del Nord America. Animale selvaggio. Animale antico. Animale consueto nel folclore dei nativi americani. Simbolo delle origini americane. Prima che l’America si chiamasse America, lui era già lì.

E se alla fine dell’opera d’arte durata tre giorni, i due coinquilini si fossero adattati l’un l’altro, allora Beuys avrebbe potuto dire che I like America and America likes me.

E così ha intitolato la sua opera d’arte.

L’opera d’arte è la performance stessa. Visibile integralmente solo da chi a maggio del 1974 era a New York, alla galleria Renè Block a 409 West Broadway, a SoHo, in piedi a guardare Beuys e il coyote. Alcuni tratti spezzettati sono però ancora visibili alla Tate Modern di Londra o su internet, perché girata in parte su pellicola di 16 mm in bianco e nero.

Sulla pellicola di 16 mm si vede Beuys con un cappello, un gilet e una coperta di feltro addosso. Ha un bastone eurasiatico. Come fosse uno sciamano e il coyote il suo sciacallo dorato (l’antenato ancora più antico del coyote).

Convivono dentro a una stanza per tre giorni. All’inizio l’animale diffida dell’uomo. Morde il bastone e morde la coperta, ma non morde lui. Si scrutano e si girano attorno. Dormono. Mangiano. È Beuys a mettere ciotole di acqua e di cibo a disposizione del coyote. Natività e civiltà che s’intrecciano e si assemblano e si adattano. I like America and America likes me.

Il coyote non lo morde mai, non lo attacca mai. E lo stesso fa Beuys. Il coyote tendenzialmente non è un animale aggressivo, non tende ad attaccare l’uomo e non attacca Beuys.

“All’America piaccio. Alla natura piaccio”. E la gente li guarda e decide se gli piace o no quello che guarda, a seconda di quello che interpreta. E le interpretazioni sono tantissime. Contraddittorie come l’opera stessa che stanno guardando.

Animale gregario e solitario allo stesso tempo. Adattabile e ribelle allo stesso tempo. Animale contraddittorio in un Paese contraddittorio. Dentro all’arte contraddittoria.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

 

 

 

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