Merda d’artista, Piero Manzoni

Merda d’artista. Contenuto netto gr 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.

Merda d’artista, 1961, Museo del ‘900 (n.80), Milano

Sono in realtà 90 vecchi barattoli di carne in scatola che Manzoni compra, svuota e riempie con del gesso. Nessuno in mezzo al pubblico lo vede perché le scatolette sono chiuse. Sull’etichetta firma ripetutamente il suo nome e scrive in grande Merda d’artista, prendendo in giro non solo chi la guarda ma anche l’arte stessa. L’arte che negli anni ’60 comincia a cambiare e diventa la cosiddetta ‘arte concettuale’, movimento artistico in cui l’espressione è sopra la costruzione e il concetto è sopra l’oggetto. Perché possibile che una scatoletta vecchia di carne che si spaccia per essere merda non sia merda per davvero, ma valga tanti tanti soldi? e possibile che così tante persone la amino? Manzoni lo dimostra. Dimostra come l’arte sia cambiata per sempre e il mercato insieme a lei. Un mercato disposto a comprare qualsiasi cosa a cifre folli purché abbia la firma di chi conta addosso. Chi è che conta? L’artista. La sua firma. Il suo pensiero. Che prende in giro tutti quanti e per questo a tutti piace.

Fiato d’artista, 1960

In un’altra opera, Fiato d’artista (1960), Manzoni ripete il concetto di decadimento usando il suo fiato. Ma spreca fiato per cosa? Per dei palloncini che vogliono somigliare a corpi femminili. Prende una modella, bella, ben disposta e con un bel sorriso in vista. La mette su una sedia ferma e immobile e lui soffia e gonfia e sbuffa dentro a un palloncino. Vuole ritratte la donna così come la vede lui: un palloncino gonfio. Nella speranza che non sia solo questo. Poi mette il palloncino a forma di palla, di pera o di mela, a seconda di come gli viene, su un piedistallo come fosse una statua. Strano ma vero, un’altra opera che vale tanti soldi.

Sculture viventi, 1961
Base Magica, 1961

C’è un altro modo però con cui tratta il corpo femminile ed è quello di Sculture viventi (’61). Durante le riprese per il Filmgiornale SEDI a Milano, prende alcune modelle nude e inizia a marchiarle come mucche scrivendo il suo nome e cognome in qualche parte del corpo. In quest’opera si ripete il concetto di ripetitività, di firma autorevole. In quest’opera è l’essere vivente che diventa oggetto o forse il contrario. Anche con Base Magica (’61) fa un po’ la stessa cosa. prende una base di legno aggiungendo magica nel titolo. Traccia due impronte di piedi sopra la scatola invitando chiunque a salirci sopra così che tutti possano diventare statue viventi e opere d’arte per un minuto. E forse è proprio questa una tra le varie capacità dell’artista. Prendere in giro il pubblico facendolo sentire importante per un minuto.

Joseph Beuys e il coyote. I like America and America likes me.

Joseph Beuys. A parte la stanza e a parte il coyote non ha toccato altro e non ha visto altro. Non ha visto l’America. Non l’ha toccata nemmeno con un piede. Arrivato all’aeroporto di New York JFK si è fatto trasportare infetto e bendato su una barella infilata in un’ambulanza fino alla Renè Block Gallery di Downtown e si è chiuso in una stanza. Maggio 1974. Insieme a un coyote. Per tre giorni. Lui e il coyote.

“Volevo isolarmi, non vedere nient’altro oltre al coyote”.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

Ma perché proprio lui? Perché un coyote? Proprio il coyote perché è un canide lupino indigeno del Nord America. Animale selvaggio. Animale antico. Animale consueto nel folclore dei nativi americani. Simbolo delle origini americane. Prima che l’America si chiamasse America, lui era già lì.

E se alla fine dell’opera d’arte durata tre giorni, i due coinquilini si fossero adattati l’un l’altro, allora Beuys avrebbe potuto dire che I like America and America likes me.

E così ha intitolato la sua opera d’arte.

L’opera d’arte è la performance stessa. Visibile integralmente solo da chi a maggio del 1974 era a New York, alla galleria Renè Block a 409 West Broadway, a SoHo, in piedi a guardare Beuys e il coyote. Alcuni tratti spezzettati sono però ancora visibili alla Tate Modern di Londra o su internet, perché girata in parte su pellicola di 16 mm in bianco e nero.

Sulla pellicola di 16 mm si vede Beuys con un cappello, un gilet e una coperta di feltro addosso. Ha un bastone eurasiatico. Come fosse uno sciamano e il coyote il suo sciacallo dorato (l’antenato ancora più antico del coyote).

Convivono dentro a una stanza per tre giorni. All’inizio l’animale diffida dell’uomo. Morde il bastone e morde la coperta, ma non morde lui. Si scrutano e si girano attorno. Dormono. Mangiano. È Beuys a mettere ciotole di acqua e di cibo a disposizione del coyote. Natività e civiltà che s’intrecciano e si assemblano e si adattano. I like America and America likes me.

Il coyote non lo morde mai, non lo attacca mai. E lo stesso fa Beuys. Il coyote tendenzialmente non è un animale aggressivo, non tende ad attaccare l’uomo e non attacca Beuys.

“All’America piaccio. Alla natura piaccio”. E la gente li guarda e decide se gli piace o no quello che guarda, a seconda di quello che interpreta. E le interpretazioni sono tantissime. Contraddittorie come l’opera stessa che stanno guardando.

Animale gregario e solitario allo stesso tempo. Adattabile e ribelle allo stesso tempo. Animale contraddittorio in un Paese contraddittorio. Dentro all’arte contraddittoria.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

 

 

 

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