Arte a parte

Intervista immaginaria a Adele Bloch-Bauer, la Giuditta di Gustav Klimt.

Perché Giuditta?

Perché per Klimt facevo parte di quelle che vengono chiamate femme fatale. E io sono Giuditta. L’eroina ebrea che riesce a sedurre anche le bestie brutali e poi a ucciderle.

Giuditta I, Gustav Klimt, 1901, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

Uccide per davvero?

Non direi…

E Klimt è una bestia brutale?

Klimt? Assolutamente no. Ma io e Klimt non siamo stati mai insieme. Nonostante le voci dicano che… ma non è così. Si pensava che qualsiasi donna venisse ritratta da un artista fosse sua amante, ma non è così. A volte e anche spesso e anche nel mio caso, si creava un puro e semplice rapporto di creazione. Io lo ispiravo e lui si lasciava ispirare. A entrambi questo bastava. Le voci di quello che la gente dice non vanno mai ascoltate. E poi ero sposata.

Adele Bloch-Bauer (1881-1925)

Una sposa felice?

Io felice non lo sono di natura, però Ferdinand mi voleva bene. Aveva diciassette anni in più di me eppure facevamo la stessa vita. Allora la differenza di età non contava poi così tanto, non è come adesso. Le donne non avevano poi tutta questa emancipazione. A me sarebbe piaciuto andare all’università ad esempio e magari chissà, creare qualcosa di mio un giorno. Ma noi donne non potevamo. Così ho iniziato ad aiutarlo nella sua impresa e davamo ricevimenti su ricevimenti a casa. Questa era la nostra vita.

E Klimt quando è entrato a farne parte?

Faceva parte della combriccola che invitavamo a casa. Faceva parte delle belle menti. Veniva soprannominato Frauenversteher, l’intenditore di donne. Fu Ferdinand a chiedergli di ritrarmi. Alcuni potrebbero pensare che si fosse dato la zappa sui piedi… ma come ho già detto, non bisogna ascoltare quello che pensa la gente. Non se pensa male.  Tra me e lui non è mai successo niente. Non ho mai tradito mio marito.

Come mai l’ha ritratta come Giuditta?

Io vengo da una famiglia ebraica. Quel quadro era destinato ai miei genitori, è stato fatto per loro. E Giuditta è un bel personaggio nell’ebraismo, non trova? È proprio un bel personaggio. È bello vedersi nel ruolo di qualcun altro.

Vuole dire che è un ruolo che non le appartiene?

Beh, io cosparsa di oro con la testa di Oloferne smozzata che appare di scorcio non credo che mi appartenga molto. Ma in fondo qualcosa c’è. Era capace di crearmi in un modo in cui non mi sarei mai vista, ma grazie a lui sono riuscita a farlo. Capisce cosa intendo? Se guarda i quadri di Klimt, i suoi soggetti e la sua pittura, sono tutti molto lontani dalla realtà. Tutto questo oro ovunque e le linee e i colori. Non somigliano alla realtà. Eppure realtà. Come se la restituisse con qualcosa in più. Lui la prende, la disfa, la rifa’ e te la da’. Oro, oro ovunque. Tutti i quadri così dorati. Ognuno con un suo significato. Non trova?

E la sua famiglia?

Lo apprezzò molto. Chiesi poi a mio marito dopo la mia morte di cederlo alla Österreichische Galerie Belvedere. Volevo rimanesse a Vienna, la mia città. La città di Klimt. La città in cui doveva rimanere. E Ferdinand fu fedele. Fino all’arrivo del Reich. Nel 1938, quando l’Austria si unì alla Germania e quei balordi si presero tutto compreso il mio quadro. La mia famiglia fuggì e al mio quadro cambiarono il titolo. Woman in gold. Non sono d’accordo sul titolo. Sarebbe dovuto rimanere Giuditta. Ma va bene così.

Woman in gold?

Sì. La donna in oro. Non era proprio quello il senso. O forse in fondo sì. O forse ognuno ha il suo.

E dopo? Chi lo ha preso il quadro?

Mia nipote, Maria Altmann, dopo essere scappata dall’Austria ritornò anni e anni dopo a recuperare il quadro. La mia Giuditta. Recuperò i quadri rubati alla nostra famiglia dai nazisti. La mia Giuditta. Ma non riuscì a riprenderli tutti.

Si dice sia stata una grossa perdita per la vostra famiglia.

Quale perdita? Questa perdita? Quello che abbiamo perso sono cose. Oro. Quadri. Quadri d’oro. Solo cose. Non abbiamo perso quello che hanno perso tanti altri. Ma questo molti fanno fatica a capirlo, o forse semplicemente lo dimenticano. Lo capiscono, ma lo dimenticano.

 

 

 

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