Intervista immaginaria a Adele Bloch-Bauer, la Giuditta di Gustav Klimt.

Perché Giuditta?

Perché per Klimt facevo parte di quelle che vengono chiamate femme fatale. E io sono Giuditta. L’eroina ebrea che riesce a sedurre anche le bestie brutali e poi a ucciderle.

Giuditta I, Gustav Klimt, 1901, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

Uccide per davvero?

Non direi…

E Klimt è una bestia brutale?

Klimt? Assolutamente no. Ma io e Klimt non siamo stati mai insieme. Nonostante le voci dicano che… ma non è così. Si pensava che qualsiasi donna venisse ritratta da un artista fosse sua amante, ma non è così. A volte e anche spesso e anche nel mio caso, si creava un puro e semplice rapporto di creazione. Io lo ispiravo e lui si lasciava ispirare. A entrambi questo bastava. Le voci di quello che la gente dice non vanno mai ascoltate. E poi ero sposata.

Adele Bloch-Bauer (1881-1925)

Una sposa felice?

Io felice non lo sono di natura, però Ferdinand mi voleva bene. Aveva diciassette anni in più di me eppure facevamo la stessa vita. Allora la differenza di età non contava poi così tanto, non è come adesso. Le donne non avevano poi tutta questa emancipazione. A me sarebbe piaciuto andare all’università ad esempio e magari chissà, creare qualcosa di mio un giorno. Ma noi donne non potevamo. Così ho iniziato ad aiutarlo nella sua impresa e davamo ricevimenti su ricevimenti a casa. Questa era la nostra vita.

E Klimt quando è entrato a farne parte?

Faceva parte della combriccola che invitavamo a casa. Faceva parte delle belle menti. Veniva soprannominato Frauenversteher, l’intenditore di donne. Fu Ferdinand a chiedergli di ritrarmi. Alcuni potrebbero pensare che si fosse dato la zappa sui piedi… ma come ho già detto, non bisogna ascoltare quello che pensa la gente. Non se pensa male.  Tra me e lui non è mai successo niente. Non ho mai tradito mio marito.

Come mai l’ha ritratta come Giuditta?

Io vengo da una famiglia ebraica. Quel quadro era destinato ai miei genitori, è stato fatto per loro. E Giuditta è un bel personaggio nell’ebraismo, non trova? È proprio un bel personaggio. È bello vedersi nel ruolo di qualcun altro.

Vuole dire che è un ruolo che non le appartiene?

Beh, io cosparsa di oro con la testa di Oloferne smozzata che appare di scorcio non credo che mi appartenga molto. Ma in fondo qualcosa c’è. Era capace di crearmi in un modo in cui non mi sarei mai vista, ma grazie a lui sono riuscita a farlo. Capisce cosa intendo? Se guarda i quadri di Klimt, i suoi soggetti e la sua pittura, sono tutti molto lontani dalla realtà. Tutto questo oro ovunque e le linee e i colori. Non somigliano alla realtà. Eppure realtà. Come se la restituisse con qualcosa in più. Lui la prende, la disfa, la rifa’ e te la da’. Oro, oro ovunque. Tutti i quadri così dorati. Ognuno con un suo significato. Non trova?

E la sua famiglia?

Lo apprezzò molto. Chiesi poi a mio marito dopo la mia morte di cederlo alla Österreichische Galerie Belvedere. Volevo rimanesse a Vienna, la mia città. La città di Klimt. La città in cui doveva rimanere. E Ferdinand fu fedele. Fino all’arrivo del Reich. Nel 1938, quando l’Austria si unì alla Germania e quei balordi si presero tutto compreso il mio quadro. La mia famiglia fuggì e al mio quadro cambiarono il titolo. Woman in gold. Non sono d’accordo sul titolo. Sarebbe dovuto rimanere Giuditta. Ma va bene così.

Woman in gold?

Sì. La donna in oro. Non era proprio quello il senso. O forse in fondo sì. O forse ognuno ha il suo.

E dopo? Chi lo ha preso il quadro?

Mia nipote, Maria Altmann, dopo essere scappata dall’Austria ritornò anni e anni dopo a recuperare il quadro. La mia Giuditta. Recuperò i quadri rubati alla nostra famiglia dai nazisti. La mia Giuditta. Ma non riuscì a riprenderli tutti.

Si dice sia stata una grossa perdita per la vostra famiglia.

Quale perdita? Questa perdita? Quello che abbiamo perso sono cose. Oro. Quadri. Quadri d’oro. Solo cose. Non abbiamo perso quello che hanno perso tanti altri. Ma questo molti fanno fatica a capirlo, o forse semplicemente lo dimenticano. Lo capiscono, ma lo dimenticano.

 

 

 

Il bacio di Brancusi e il suicidio d’amore. Intervista immaginaria a Tatiana Rachewskaïa

Come ti chiami?

Tatiana. Tatiana Rachewskaïa.

Tatiana Rachewskaïa, cimitero di Montparnasse, Parigi

Quanti anni hai?

  1. Ho 23 anni e sono nata a Kiev nel 1887.

In pochi conoscono la tua storia. Eppure Brancusi ha scolpito per te Le Basier. Sei tu una delle figure ritratte, giusto?

Non credo proprio pensasse a me mentre la scolpiva, ma sicuramente sono io quella seppellita lì sotto. Non ho mai conosciuto Brancusi, non era nemmeno famoso ai tempi. Lo conosceva Salomon. So che dopo la mia morte ha voluto fargli o farmi o farci un regalo, per quanto potesse valere. Scolpire un uomo e una donna avvinghiati… noi due mentre ci baciamo. Ha scolpito un bacio e l’ha messo sopra la mia tomba, a Montparnasse. E quello è diventato il nostro bacio. È bello, non trovi?

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi

Oh sì, e non sono il solo… ma che ci facevi a Montparnasse? Più che altro, cosa ci fai nella tomba?

Se non fossi mai arrivata a Montparnasse probabilmente non mi troverei nemmeno lì sotto. Ad ogni modo, mi ero trasferita a Parigi per studiare medicina. Volevo diventare un medico. Avevo 23 anni, mi sono fermata a quell’età. Un po’ presto, no? Comunque… vengo da una famiglia aristocratica e non avevano problemi a sostenere le spese per i miei studi. Così sono andata a Parigi e mi sono iscritta all’Institut Pasteur, Rue du Dr Roux, ed è lì che ho conosciuto Salomon. Salomon Marbais, un giovane medico nato in Romania. L’uomo più bello che abbia mai incontrato.

È lì che è nata la vostra storia?

Sì. All’istituto. Centro di studi per guarire le persone. Mentre io al contrario mi sono ammalata. Soffrire d’amore è una malattia vera e propria, sai? Si può morire, e a me è successo. Morta per amore.

Non ti sei ammalata però, ti sei suicidata…

Cosa cambia? Ho solo accelerato i tempi, sarei morta comunque.

Perché non era corrisposto?

Questi non sono affari che ti riguardano.

Mi dispiace, non volevo. Torniamo alla statua allora. È Salomon quindi che ha chiesto a Constantin Brancusi una statua per la tua tomba?

Sì. Salomon e Constantin erano amici. Apprezzava molto l’arte di Constantin nonostante fosse solo agli inizi. Aveva già scolpito un bacio. La sua prima scultura d’arte moderna, era il 1907. A Salomon piaceva molto, così decise che era quella la rappresentazione che voleva per me al cimitero, e Brancusi ne fece una non uguale uguale ma molto simile.

E secondo te vi rappresenta?

Sono due forme molto semplici. È praticamente un blocco di pietra quadrato con due figure incise dentro. E le due figure sono quasi uguali, come fossero alla pari. Dici che ci rappresenta? Dici che io e lui siamo uguali? Siamo alla pari? Io direi di no. Sono due figure uguali e ridotte all’essenziale. Brancusi diceva che la semplicità non è altro che una complessità risolta… forse lo è anche l’amore, no? e nel nostro caso è stata risolta male. Adesso le due figure stanno lì sopra. Avvinghiate sopra di me.

Sono dieci anni che la tua famiglia manda avanti una battaglia con lo Stato francese. Non so se ti hanno aggiornata. La tua famiglia vorrebbe prendersi l’opera, dice che gli spetta. Ed è un’opera che può ambire al valore di 40 o addirittura 50 milioni di dollari. Se vincessero si metterebbero un bel po’ di soldi in tasca i tuoi parenti. Lo Stato però non cede. Dice che appartiene ai cittadini e a tutti quelli che visitano il cimitero di Montparnasse. È un’opera pubblica e al pubblico deve appartenere. Tu da quale parte ti schieri?

Schierarmi? Sono morta da più di un secolo. Cosa importa a me non importa più ormai. Ma non sono ne’ i soldi ne’ il pubblico di certo.

Le Baiser, 1909, Constantin Brancusi, cimitero di Montparnasse, Parigi

Intervista immaginaria a Ofelia di John Everett Millais, (Lizzie Siddal).

Elizabeth Eleonor Siddal.

Preferisco Lizzie.

Elizabeth Siddal, Dante Gabriel Rossetti, 1854, Delaware Art Museum

Lizzie. È questo il nome del volto preraffaellita: Lizzie, Lizzie Siddal.

Sì. Non ero solo un volto. Ero una poetessa e pittrice, scrittrice, amavo scrivere e poi sì, ero anche modella, amavo posare. Potevo stare ore a scrivere e ore a posare.

Quanti anni avevi?

Vent’anni. Era il 1848. La regina Vittoria era salita sul trono già da una decina di anni e le cose stavano cambiando anche culturalmente. Si era appena formata una confraternita, una congregazione di pittori alla ricerca di un’arte nuova e simbolista e molto purista. Si facevano chiamare i Prerafaelliti. Volvano andare indietro, tornare indietro, prima di Raffaello, prima della natura perfetta, prima del naturalismo e ancor prima. Volevano tornare alla purezza e alla fede e a queste cose qui insomma. Con donne beate e angeliche e un po’ fragili… Buffo.

Buffo? Cosa è buffo?

È buffo il fatto che in un’età come quella, quella in cui è iniziato la prima emancipazione femminile, loro avessero nostalgia della nostra fragilità.

E tu per loro la rappresentavi molto bene questa fragilità, giusto?

È un’offesa?

No, lo è?

Probabilmente lo è. Il mio carattere non era fragile, sai? La mia salute un po’ di più e il mio aspetto anche, ma il mio carattere no. Il mio aspetto si prestava perfettamente a quello che cercavano. Ero magrolina e leggiadra, con la pelle chiara chiara e i capelli rossi e gli occhi blu. Ma dentro no… dentro mi agitavo anch’io e scrivevo e dipingevo anch’io quando ero agitata, esattamente come loro. Dante lo sapeva.

Dante?

Dante Gabriel Rossetti, (Londra 1828 – Birchington-on-Sea 1882

Il gruppo era composto da John Everett Millais, William Hunt, Ford Madox Brown, William Trost Richards, William Morris, Edward Burne – Jones, John William Waterhouse e c’era anche Dante, mio marito. Dante Gabriel Rossetti. L’uomo della mia vita. Ho scritto tantissimo per lui e lui per me. Ho una pila di lettere e poesie e biglietti che ci siamo scritti durante gli anni e quando sono morta mi ci ha seppellito insieme.

Ti ha seppellito insieme alle lettere?

Sì, come gesto d’amore. Me le ha messe sparse tra i capelli. Amava i miei capelli, li ritraeva sempre e me li accarezzava sempre. E io scrivevo. Amava quello che scrivevo per lui. Così mi ha seppellito insieme a loro. Mi dipingeva tantissimo mentre scrivevo.

Elizabeth Siddal in a chair, Dante Gabriel Rossetti, Tate Gallery, Londra

Questo disegno è il tuo preferito?

Di me? Non lo so. Uno dei tanti, insieme a Ofelia.

Ofelia non lo ha dipinto lui, eppure è stato il tuo ruolo più importante, o almeno quello più conosciuto.

Sì. Ofelia, è stato Ofelia di Millais. Colui che mi ha fatto morire.

Ophelia, John Everett Millais, 1852, Tate Gallery, Londra

Quindi è vero?

È vero cosa? Che è stato lui a farmi morire? Ho già detto che la mia salute non è mai stata possente, ma posare per il ruolo di Ofelia non l’ha aiutata a migliorare. Era il 1852. Avevo ventitré anni. Millais decise di dipingere Ofelia di Amleto: personaggio inglese e puro e perfetto per il preraffallismo. Dipinse il paesaggio en plein air senza mai fermarsi. Lo dipinse tutto in un giorno. Così fece anche con me. Ci dipinse tutto d’un fiato, ma separatamente: prima il paesaggio e poi me. M’infilò in una vasca da bagno del suo appartamento con delle candele accese tutt’intorno e l’acqua riscaldata. io restai lì tutto il tempo. Non ero comoda e non era facile. Ma restai lì tutto il tempo. ferma e immobile a farmi ritrarre pensando al momento in cui avrei visto il mio ritratto. Sono stata ore e ore in quella vasca e ore e ore a congelare. Non per amore di Millais. Per amore di quello che stava creando e per amore di quello che è possibile creare. La sua dedizione mi ha fatto restare. È stata la sua dedizione per l’arte a farmi restare. Il mio amore per l’arte a farmi restare. Il problema è che l’acqua riscaldata dopo un po’ smette di essere calda e così congelai. Quando si ama qualcosa si fanno cose strane.

E lui continuò?

E lui continuò. Io non dissi niente e restai lì a congelare. Sapevo che non mi avrebbe fatto bene, ma la curiosità di vedere il mio ritratto e la sua concentrazione nel farlo e la mia dedizione a posare per lui mi hanno fatto continuare. Sarei potuta andarmene, uscire dalla vasca e asciugarmi come farebbero tutti. Magari sarei stata meglio e avrei vissuto più a lungo, ma restai e vidi il mio ritratto. Poco dopo mi ammalai. La passione ti spinge a fare cose strane… Mi ammalai di una malattia dalla quale non guarii mai. Ma il ritratto è davvero bellissimo, non lo trovi bellissimo?

Sì, lo trovo bellissimo.

Se non fossi rimasta, non sarebbe mai esistito. Non pensi sarebbe stato un peccato? Otto anni dopo quel ritratto, mi sposai con Dante. Me lo ha fatto faticare quel matrimonio. Rimandava sempre e io lo aspettavo e lui rimandava. Abbiamo avuto un sacco di problemi. E a causa loro sono diventata depressa. O viceversa. Abbiamo avuto un sacco di problemi perché tendevo alla depressione. Alla fine morii. Dicono che lui abbia sofferto molto, sai?

È così che dovrebbe essere.

Sì, quando ci si ama molto è così che dovrebbe essere. Ma quando ci si ama molto si fanno cose strane. E quando si soffre molto si fanno cose forse ancora più strane. Qualche anno dopo, una notte, Dante è voluto venire a trovarmi riaprendo la mia tomba. Perché? Mi sono chiesta tante volte perché avesse fatto una cosa così macabra? Ho pensato fosse impazzito o che gli mancasse semplicemente il mio viso. Ha detto a tutti che il mio viso era ancora bello e intatto dopo avermi visto, non so se gli hanno creduto. Però non mi ha solo guardata, ha preso anche le nostre poesie. Tutte le nostre lettere e le nostre poesie. Dovevano rimanere con me per sempre, tra me e lui per sempre, e lui le ha pubblicate. Le ha prese per renderle pubbliche al mondo intero. Mi sono sempre chiesta perché lo avesse fatto. Se per disperazione o per altro. Se per amore o per altro. Se per amore per me, per amore per l’arte o per amore di quello che la fama e il denaro ti portano. Ma non voglio pensarci. Quando si ama qualcosa si fanno cose strane e si pensano cose strane.

 

Rosachiara Pardini

 

 

 

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Intervista immaginaria: La Noix de Coco (Jeanne Hébuterne) di Modigliani.

 

Jeanne Hébuterne, Noix de Coco (Meaux, 1898 – Parigi, 1920)

Sei conosciuta grazie a una storia d’amore.

Sì, grazie a una storia d’amore.

Lo chiami Modì, Dedo, Amedeo?

Lo chiamo in tutti i modi. Il mio Modì. Il mio Dedo. Il mio Amedeo.

Amedeo Clemente Modigliani, Modì, Dedo (Livorno, 1884 – Parigi, 1920)

Il tuo Modì. Da dove vuoi partire?

Dall’inizio inizio della storia. Perché all’inizio non volevo essere conosciuta per amore, volevo essere pittrice. La più bella pittrice di Parigi. Volevo dipingere tantissimo, tutto il giorno e che le mie tele fossero sparse ovunque e che fossi conosciuta ovunque. Mio fratello diceva che ero brava! Mi ero trasferita e iscritta a Parigi all’Académie Colarossi. La mia famiglia mi ha pagato gli studi perché non sapeva quello che li aspettava. La mia famiglia è bigotta. Benestante e bigotta. Era d’accordo sull’accademia, ma non su quello che ci ho trovato dentro. Modì. L’accademia mi ha portato da lui. Nel 1917. Lui aveva trentadue anni e io diciannove. Lui italiano, io francese. Lui alto alto moro e sicuro. Difficile. Senza soldi. Era bravo, molto più bravo di me. Era agitato, aveva mille rovelli per la testa, mentre il mio unico rovello è diventato lui. Stare dove stava lui.

E così è stato?

Così è stato. A modo nostro.

A modo vostro?

Appiccicati. Eravamo sempre appiccicati. Lui si spostava e io mi spostavo. La mia famiglia lo odiava e io odiavo la mia famiglia. Li ho mollati e sono andata con lui a vivere a Nizza un anno dopo ed è lì che ha iniziato a dipingere tantissimo, come non aveva mai fatto prima. Perché ormai c’ero io, la cosa che preferiva dipingere più al mondo, la cosa che preferiva più al mondo. Mi ritraeva in tutti i modi e io ritraevo lui. Stavamo appiccicati sempre. A volte non parlavamo neanche. La gente ci guardava seduti ai tavoli dei bar appiccicati e ammutoliti. Dicevano che ero scialba perché non parlavo. Ma le parole non serve dirle sempre.

Ritratto di Jeanne Hébuterne, 1919, Amedeo Modigliani, collezione privata

Una storia rosa e fiori insomma…

Con tante spine. C’erano momenti in cui mi mollava per andare a bere da altre parti e quei momenti erano tantissimi. Beveva molto. Moltissimo. Io andavo a casa e lui andava a bere. Lo faceva come mezzo, non come fine. Lo faceva per stimolarsi, sentire di più e di più, produrre di più, vedere di più. Non era un ubriacone, era alcolizzato sì, ma non puzzava mai di vino, non era un ubriacone. Lo criticavano ed etichettavano. Mormoravano, cinguettavano… quelle civette! Quelle carogne beote. Senza sapere cosa dicevano. Beveva e dipingeva e poi sì, guardava le altre donne per dipingere anche loro.

Nu couché, 1917, Modigliani, collezione privata

La Belle Romaine, 1917, Modigliani, collezione privata

Parlami di loro.

Loro. Amedeo le ritraeva nude anche dopo aver incontrato me. C’era Margherita, c’era Thora, c’era Elvira, c’era Lucienne, Gaby. Alcune le preferiva rispetto ad altre, alcune si vedono di più rispetto ad altre, e io molto più delle altre mi sono sempre chiesta il perché. Alcune di loro avevano seni grandissimi e occhi neri nerissimi. È dopo aver visto quegli occhi nei quadri che ho iniziato a chiedermi come sarei stata se avessi avuto gli occhi neri come loro. A volte erano scure, oscure, con mille paturnie e fardelli. Altre volte più pallide e sgonfie, precise. Amedeo le ritraeva spesso nude. Erano belle nude, erano belli quei nudi e mentirei se dicessi il contrario. Ma di quello che sentivo io mentre li faceva non ho voglia di parlare. Era difficile stargli dietro, accanto, ma sono riuscita sempre a farlo e lui è riuscito sempre a tornare da me.

Nudo in piedi, 1918, Modigliani, collezione Walter Hadorn a Berna

Da te. La sua noix de coco.

Sì, così mi chiamava. Noix de coco. Perché come la polpa del cocco la mia pelle era bianca bianca e i miei capelli scuri scuri come l’esterno della noce.

Come era farsi dipingere da lui?

Molti dicevano “era come farsi spogliare l’anima”. Per me era ancora più di questo. A volte era tanto di più che ero contenta non ci mettesse molto a ritrarmi. Solitamente in una o due sedute aveva fatto. Ma poi c’erano altre volte, quelle volte in cui speravo non finisse mai. Modì diceva “non dipingerò nei miei quadri gli occhi fino a quando non conoscerò l’anima delle persone”. Occhi azzurri è uno dei primi ritratti che mi ha fatto. Occhi azzurri, così lo ha intitolato. L’anno in cui ci siamo incontrati.

Occhi azzurri, 1917, Amedeo Modigliani, Philadelphia Museum of Art

Primo ritratto di Noix de Coco, 1917, Modigliani

Nessun rimpianto?

Nessun rimpianto. Quando lui si è ammalato e mi ha lasciato era il 24 gennaio del 1920. Avevamo una bambina. L’abbiamo chiamata Jeanne, come me. Le due cose che amava di più. Due giorni dopo la sua morte non ce l’ho fatta. Sono salita al quinto piano del palazzo e ho guardato giù. Il pancione con il secondo figlio non riusciva a farmi vedere bene, ma mi sono sporta un po’ di più e basta. Ho dedicato tutto a lui, la mia vita e la mia morte e la vita degli altri, ma questa è un’altra storia.

 

 

 

 

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Intervista immaginaria al Nano Morgante.

Come ti chiami?

Morgante

Segni particolari?

Sono grassotto perché non ho abbastanza lunghezza per disporre la ciccia in tutto il corpo. Sono alto molto poco. Sono molto basso, sono nano. Ma non sono un nano, sono il Nano. Il Nano Morgante.

“Il”?

Il Nano Morgante. Quello che a corte tutti vogliono e tutti aspettano. Quello che senza di me la festa non c’è.

E perché ti chiamano Morgante?

Perché Morgante è il gigante nel poema di Luigi Pulci. È una presa in giro e così li lascio fare e mi ci faccio chiamare. Perché sono un giullare e il mio mestiere è far divertire gli altri e il mio corpo sembra facilitarne il divertimento. Ma a far divertire mi diverto anche io, molto più degli altri.

Come ti chiami veramente?

Braccio di Bartolo.

Non sembri toscano dall’accento…

Sono bolognese. Originario di Castel del Rio.
Poi sono venuto a Firenze e a corte e insieme a me ho trovato altri quattro nani. Cinque nani a corte. Cosimo I e i cinque nani. Ma nessuno era come me. Io ero il re dei nani, tutti mi volevano. Ero il preferito del Duca.
Tutti m’imploravano per intrattenere e intrattenere, ancora di più e sempre di più. Il mio duca non mi lasciava mai. Mi ha riempito di vizi e di ritratti. Tutti mi hanno ritratto, spesso nudo.

Anche Giorgio Vasari parla di te. Lo sapevi? Sai leggere?

Non so leggere, ma sono un cacciatore pazzesco. E modello.
Cosa dice Vasari? L’ho conosciuto perché è venuto a corte.
Ha la puzza sotto al naso, il mio duca lo invitò da noi e lui rifiutò l’invito. Fu così che i rapporti si interruppero.

Dice “…il Duca, il quale ha fatto fare al medesimo di marmo la statua di Morgante nano, ignuda, la quale è tanto bella e così simile al vero riuscita, che forse non è mai stato veduto altro mostro così ben fatto, ne’ condotto con tanta diligenza simile al naturale…”

L’avevo detto che ha la puzza sotto al naso! Io non sono un mostro. Sono poco alto e molto basso. Poco e molto. Non vuol dire essere un mostro. Se fossi davvero un mostro nessuno avrebbe piacere a ritrarmi con le natiche all’aria. E hai visto invece per quanti nudi mi è toccato posare?
Hai visto i giardini di Boboli? Hai visto la fontana del Bacchino lì dentro? Come sono bello tutto bianco e tutto in marmo in sella ad una tartaruga gigante. Leggiadro e con lo sguardo intelligente. Non sono un buffone. Faccio il buffone, ma non sono un buffone.
Sono anche agli Uffizi adesso.

La fontana del Bacchino, 1560, Valerio Cioli, Giardino di Boboli, Firenze

Si è vero…cioè non tu, Agnolo Bronzino è agli Uffizi.

Io! Io sono agli Uffizi! Non c’è mica la faccia del Bronzino lì dentro, sono io a fare la cornice! Grazie al mio duca innanzitutto e poi grazie al Bronzino. Ma sono io a mettere faccia e chiappe.

Faccia e chiappe e farfalle?

Esatto. Il Bronzino pensò fosse meglio dipingere una farfalla svolazzante sul mio fallo e il pubblico non era pronto. Non è come oggi. Anche se ancora oggi quando vado in giro la gente si volta a guardarmi. Forse rispecchio ancora i loro canoni di bellezza. Comunque sia non era come oggi. Una Venere nuda era un conto, ma un nano nudo un po’ meno. Forse il maschio nudo in generale un po’ meno, un po’ zero.

Nano Morgante, 1552, Agnolo Bronzino, Galleria degli Uffizi, Firenze

Eppure il Bronzino ti ha ritratto persino da entrambi i lati. Fronte e retro.

Sì. Dicono lo abbia fatto per dimostrare quanto fosse bravo in pittura. Quanto la pittura fosse migliore della scultura, perché attraverso la pittura puoi raccontare scene diverse e tutte queste cose qua, mentre nella scultura questo non lo puoi fare. Ma la realtà è che mi ha dipinto nudo e fronte retro perché sono molto troppo bello, sia davanti che di dietro.

Infatti nel quadro sono dipinte due scene diverse, giusto?

Giusto. Nella prima sto cacciando e nella seconda ho finito la caccia. Sono un cacciatore. Un buffone, giullare, quadro-modello e cacciatore. A corte facevo tutto quello che mi veniva richiesto. Qualunque cosa Cosimo volesse che io fossi la diventavo. Voleva che fossi un bravo cacciatore e sono diventato un bravo cacciatore. Così sul lato frontale del dipinto tengo in mano la ghiandaia e sul retro tengo in mano la ghiandaia stecchita.

Sei molto sicuro di te. È proprio vero che non ti vergogni di niente.

Di cosa dovrei vergognarmi? Non vergognarmi di niente è stata la mia fortuna. Nell’Ottocento nel quadro del Bronzino mi hanno trasformato perfino nel dio Bacco. Se fossi stato un insicuro nessuno lo avrebbe fatto. Hanno messo un perizoma di foglie e uva a soffocare la mia farfalla e non ho più uccelli svolazzanti intorno, ma del vino e una ghirlanda trionfante in testa.

Adesso però sei tornato alle origini nel quadro, giusto?

Si, pochi anni fa mi hanno restaurato. Forse progredendo si sono resi conto che un nano nudo non avrebbe scandalizzato nessuno.

Quale dei due preferisci? Essere bacco o un cacciatore?

Vanno bene entrambi. Mi rappresentano entrambi. Non mi sono mai vergognato, non mi vergogno di niente, ero il preferito proprio per questo. L’imbarazzo, la timidezza, la debolezza e l’insicurezza non sono mai ammesse a corte. Impudente e arguto.
Sono molto basso, sarebbe ancora più facile schiacciarmi se non fossi impudente e arguto.

 

 

 

 

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Intervista immaginaria: Goulue, la golosona di Toulouse Lautrec.

Intervista immaginaria, basata su una storia vera. La Goulue, la golosona, ballerina del Moulin Rouge e di Toulouse Lautrec…

Chi è la donna che alza la gambetta fino al viso, con due gote a palloncino e una crocca in testa pel di carota?

Louise Weber, detta La Goulue, golosona e ballerina del Moulin Rouge

Sono io, Goulue la golosona! Golosa di cibo soprattutto e di sesso, anche se in realtà il mio vero nome è Louise Weber, sono nata a Clichy nel 1866.

Riconosci questo manifesto?

Moulin Rouge. La Goulue, litografia, 1891, Henry de Toulouse Lautrec

Certo! Sono io! Il mio amico Toulouse mi ha ritratta in occasione del mio debutto al Moulin Rouge nel 1891. Mi ha ritratta lì in mezzo al palco, con la gamba alzata tipicamente mia, viso concentrato e folla che mi scruta senza togliermi gli occhi di dosso. In primo piano c’è il mio partner Jacques Renaudin, che in arte si fa chiamare Valentin le Désossé perché quando balla sembra essere disossato per davvero. Indossa sempre redingote e cilindro, proprio come nel manifesto.

In questo manifesto infatti siete qui che ballate insieme. È il ’95 giusto?

La Goulou e Valentin-Le-Désossé, 1895, Henry de Toulouse-Lautrec

Giusto. Io con il sedere in fuori e le gambe spaparanzate e Valentin anche! Che bravi che siamo e che bravo che è quel nanerottolo di Toulouse! Un po’ rompi palle quando viene tutte le sere a trovarmi, ma scherzo, siamo amici, almeno da parte mia … ognuno di noi fa la sua parte: io ballo e lui disegna. Viene sempre a trovarmi, a scolarsi cinquanta bicchierini di assenzio, come il negroni ora per voi, e si mette lì a fare la sua arte. È stato lui a convincermi a lasciare il Moulin de la Galette per il Moulin Rouge.

Ha fatto bene a convincerti?

Direi di sì! Ero la star di quel posto! Quello che voi andando a Parigi fotografate a tutto spiano senza poterci nemmeno entrare per davvero. Un tempo non si fotografava un fico secco. Si entrava e basta, per vedere me! La regina del can-can! La madre creatrice del can-can! E altre gallinelle e galli saltellanti. Una serata indimenticabile fu quella del debutto! Nella mia epoca, quella bella, mi conoscevano per quello.

Da dove arrivavi prima?

All’inizio, inizio dalla pancia della mia mamma, Madelaine, lavandaia, sposata con mio papà Dagobert, un carpentiere. È per loro che ho queste gotine a palloncino che col tempo ho gonfiato ancora di più grazie al mio appetito. Fin da subito volevo essere ballerina, come la maggior parte delle bambine di sei anni. E a sei anni sono andata per la prima volta sul palco. Sempre stata precoce! Non solo nel mondo dello spettacolo… A sedici anni finalmente mi trasferisco nella capitale. Di giorno guadagno qualche soldo un po’come bella lavanderina, un po’ nei circhi e un po’ facendomi ritrarre nuda e in posa da qualche fotografo o artista di Montmartre. La sera ballo sui tavoli di vari locali. Ho imparato così a prendermi gioco dei garzoni.

Così come?

Alzando gonne, aprendo gambe, mostrando… beh le mutandine! Con un cuoricino ricamato sopra. Gli uomini spesso impazziscono per le mie mutandine, ma non possono togliermi niente di dosso. Solo io lo faccio. Con la punta dei miei piedini carnosi mi diverto a togliergli il cappello e a fregargli da bere.

E dopo aver imparato a divertirti con i tuoi garzoni sui tavoli dove hai continuato a farlo?

Al vecchio mulino di legno Moulin de la Galette, facevano da mangiare delle gallette buonissime da inzuppare nel vino. È per quello che il mulino si chiama così! Ma è famoso, lo conoscete!

Forse. Qual è il Moulin de la Galette?

 Quello dove Renoir ritrae il ballo nel 1876!

Tu non ci sei in quel ballo…

Beh no, a dieci anni è difficile e Renoir non lo conoscevo ancora.

La fama del Moulin de la Galette viene quindi poi rimpiazzata da quella del Moulin Rouge…

Sì… quando lavoravo al de la Galette giravano voci strane sul vecchio proprietario. Pare che nel 1814 quando Parigi è stata invasa dai cosacchi il vecchio buon mugnaio Debray, cercando di difendere il suo mulino contro i cosacchi, si è beccato un sacco di sciabolate in testa. È stato smembrato in quattro pezzettini appesi alle belle ali del suo mulino… Pare! A portare avanti il tutto ci hanno pensato poi i figli. Ad ogni modo proprio alla Galette conosco il mio amato nanetto Toulouse, è lui che mi convince a spostarmi al Moulin Rouge appena aperto. Mi fido, ci vado! È qui che m’invento il can-can facendo un sacco di soldi.

Cos’è il can-can esattamente?

In realtà l’usanza nasce nelle strade di Montmartre alla domenica, quando le lavandaie come me o mia madre mostravano le mutande per le strade. Ho iniziato a mischiare quest’usanza con quella della quadriglia italiana. È così che divento ricca e famosa. Ballando, bevendo, seducendo e divertendomi.

E poi?

Poi faccio la scelta della polla. Accecata dal successo penso che i miei seguaci mi seguano ovunque. Cambio palcoscenici, lascio il Moulin Rouge, torno nel mondo circense. Seguitemi! Seguitemi! E nessuno mi segue. Terra bruciata intorno. Un tipo qualunque mi mette incinta. Simon, decido di chiamare così mio figlio.

Quindi tuo figlio non nasce dal tuo matrimonio?

 No, mio marito lo incontro poco dopo. Joseph Nicolas Droxler, un domatore di belve! Ma la guerra chiama e lui parte. La mia vita divertente non è finita nel modo più divertente. I miei amori più grandi mi hanno lasciata prima che io lasciassi loro. Bicchierino dopo l’altro sono diventata un’alcolizzata cicciona. Vivo in una roulotte al n. 59 di rue des Entrepôts. Vendo noccioline, fiammiferi e sigarette per la strada. Mi prendo cura di un sacco di gatti e di cani che trovo in giro.

E al Moulin Rouge non torni mai?

Ogni tanto sì, mi metto lì fuori a guardare e a ricordare. E nessun passante ricorda me.

Adesso c’è Mistinguett!

Mistinguett, pseudonimo di Jeanne Bourgeois

Esatto, adesso c’è Mistinguett… belle gambe vero? Grazie mille per l’intervista, ma adesso devo tornare dagli animali.