Un’opera complessa. Si dice che sia tra le più complesse del Novecento. Duchamp ha impiegato circa dieci anni per farla. Taccuini, disegni, bozzetti. Ma in realtà è molto semplice. Perché non le ha dato un significato, ma solo un titolo. La sposa messa a nudo dai suoi scapoli/La Mariée mise à nu par ses célibataires. E sia la sposa che gli scapoli sono rappresentati su due grandi lastre di vetro trasparente con lamine di metallo, polvere e fili di piombo. Due lastre ben divise tra loro. Ognuna al posto suo.
In alto la sposa. Una sposa che va un po’ interpretata, immaginata. Nuda. Immobile. Spogliata. Emana una scia, una nuvola con tre riquadri che forse rappresentano i suoi pensieri, la natura, l’elevazione verso l’alto. Qualcosa di sottile, come la sua sagoma: due gambe secche secche attaccate a un bacino un po’ più largo. Qualcosa di fragile.
In basso invece ecco gli scapoli. Manichini, abiti, divise. Qui il corpo manca. Ci sono solo dei vestiti a rappresentarli che sembrano uniformi. Il corazziere, l’inserviente, il barista, il becchino, il capostazione, il poliziotto, … Categorie (maschili) e non individui, che girano intorno a una giostra. Una giostra in movimento a differenza dell’immobilità che appare nella lastra di sopra. Avanti e indietro avanti e indietro come farebbero i loro genitali su un letto. Degli automi privi di identità personale e fisica che si muovono non accanto a una nuvola, ma su una giostra che guida la macchina accanto. Una macinatrice. Macinare che significa ridurre in polvere, in frammenti. E cosa macina? Della cioccolata. E cosa rappresenta la cioccolata? Probabilmente il desiderio.
Così Duchamp rappresenta un rapporto tra uomo e donna emblematico, o meglio enigmatico. Un rapporto tra una sposa in alto senza il suo vestito e degli scapoli in basso senza i loro corpi su sue lastre di vetro trasparenti divise tra loro. Nuvole sopra e macchine sotto. Elevazione ed erotismo. Desiderio. Un desiderio frantumato da una macinatrice.
E caso vuole che il vetro cade in frantumi durante uno spostamento nel 1926.
Duchamp non si scompone. Lascia che l’opera diventi quello che le accade. Lascia che si formi della polvere sul vetro frantumato per poi appiccicargliela sopra in modo tale che non vada più via. Il caso si può forse dire che si sia adeguato all’opera perfettamente.
E quindi alla fine di tutto, cosa rappresentano queste lastre di vetro? Un rapporto umano rotto? Un simbolo femminista creato da un artista con il sesso opposto? O il rapporto tra l’uomo e la materia, l’oggetto, la macchina? O forse niente di tutto questo.
La risposta di Duchamp non è mai stata data. Questa è solo una delle tante interpretazioni date.
“L’opera si fa da sé” dice, “grazie all’artista e grazie a chi la guarda”.