Una vagina e un pennello. Non serve molto. Shigeko Kubota (Nigata, 1937 – New York, 2015) utilizza una vagina, la sua, e un pennello attaccato alla vagina. Perché lo fa? Perché il genio creativo può essere anche una prerogativa femminile e perché niente di meglio di un pennello e una vagina rappresentano la creazione e la femminilità, ma non solo.
L’artista d’avanguardia giapponese del movimento Fluxus, scomparsa nel 2015, si mette all’opera nel 1965 durante il Perpetual Fluxfest, al Cinematheque di New York.
Entra nella stanza, si mette china sopra un foglio bello grande, ha un pennello attaccato alla patata e inizia a disegnare.
Eppure Kubota non è la prima a fare un lavoro del genere. Le geisha dei secoli scorsi, quelle dei ceti sociali bassi, che non erano solo geisha, ma prostitute, chi più e chi meno raffinate, per intrattenere i loro ospiti si davano alla scrittura. Tra le tante attività d intrattenimento che avevano c’era anche quello della scrittura. E l’arte della scrittura in giappone, lo Shodō, non era cosa da niente. Era un’arte raffinata e delicata. Sottile. E così iniziavano: prendevano un pennello, lo posavano sulla vagina e iniziavano a scrivere. E gli spettatori incantati le guardavano mentre queste elevavano la prostituzione a un’arte più alta. E così fa anche Kuboto. Eleva la sua vagina a un’arte più alta.
Disegna linee astratte e rosse. Sembrano schizzi di sangue. Come se a uscire fuori dall’interno di Kubota fosse del sangue, oltre che arte. E non un sangue qualunque, ma quello femminile, che non è solo una mestruazione, ma un po’ il centro di tutto. È la fertilità. È quello di cui siam fatti.
Vagina painting la intitola. Come fosse un action painting di Pollock ma utilizzando ben altro. Action. Painting. Azione. Creare. Fare tutto quello che si può fare, purché ci porti in alto. A elevarci. Agire per elevarci. Forse è proprio questa l’arte di elevarsi.