Rembrandt con il giudizio degli altri

Rembrandt è già un nome grande nei Paesi Bassi e ha solo poco più di vent’anni. Tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Principi e principesse vogliono i suoi ritratti da appendere al muro nei loro grandi e maestosi palazzi. I critici scrivono di lui. Critici come Costantijn Huygens, addetto alla cultura del Paese, lo definisce come l’eroico futuro dell’arte olandese. Lo definisce così ancor prima che gli altri se ne accorgano. Lo definisce così ed ecco che la fama esplode. Il re della drammatizzazione. Il re della luce e dei sentimenti. Un genio che riesce con un pennello a mettere emozioni su tela in un modo tutto suo, molto distante da quello che l’arte ufficiale ai tempi richiedeva. Elogi di qua ed elogi di là. E poco dopo, il 1630. L’anno in cui viene chiamato dalla corte olandese all’Aja per una commissione dopo l’altra che avrebbero fatto di lui l’artista di corte, avviandolo in una carriera lunga e sicura, con una paga sicura, in un posto sicuro.

Ma lui non ci va. Preferisce Amsterdam. La città del commercio. È proprio in quegli anni infatti in cui Amsterdam vive il suo grande boom trasformandosi in economia globale: il recondito porto di aringhe e cereali diventa supermercato mondiale, il suo commercio si estende dalle Indie orientali al Brasile e chi ha bisogno di vino francese o di seta italiana o di pelliccia, tabacco, zucchero… è tutto lì, va lì a prenderselo. E anche l’arte cambia. Invece di immagini di chiesa e sacralità, si passa al richiamo sensuale dei piaceri e del mondo terreno. E Rembrandt casca a pennello.

Rembrandt e La Ronda di Notte, Rembrandt e il Ratto di Europa, Rembrandt e le Lezioni di anatomia del dottor Tulp. Sono gli anni in cui il figlio di un mugnaio e nipote di un fornaio da’ il meglio di se’. Con pennellate vive e crostose, stoffe e rughe minuziosamente ritratte e giochi di luce, Rembrandt si fa spazio e produce le sue opere più famose costruendo dieci anni gloriosi. Si sposa con la sua amata Saskia e compra una bella magione. Colleziona opere d’arte e riempie il salone d’ingresso con busti classici e dozzine di quadri. Tutto quasi perfetto.

Eppure non tutti apprezzano i suoi drammi. Alcuni capolavori subiscono lamentele e alcuni committenti risultano insoddisfatti.

Nel 1642 un tal dei tali molto potente chiede un quadro con soggetto, oggi ignoto, al pittore. Per la prima volta un committente è così insoddisfatto del risultato che si rifiuta di pagare l’artista. Cinquecento fiorini non sborsati. Rembrandt ritarda con il tempo le consegne e le lamentele continuano: ‘troppo disinvolto’ , ‘troppa libertà’ , ‘I canoni dell’arte sono troppo stravolti con lui’. Così a lamentarsi del pittore non sono solo i committenti. Finisce anche sul libretto nero dei critici, o meglio dei connaiseurs.

E chi proprio tra questi è pronto a remargli contro? Costantijn Huygens. Lo stesso addetto alla cultura che lo aveva lanciato a corte pochi anni prima, elogiandolo ed encomiandolo. Nel 1644 il critico d’arte pubblica le sue maligne frasette sull’incapacità del pittore di restare fedele ai suoi modelli.

Rembrandt risponde. Risponde con Satira della critica d’arte, un disegno a penna e inchiostro, dove ritrae un ammasso di conoscitori d’arte impegnati a criticare un’opera. Sulla destra c’è un tipo alto con il cappello alto e con un dito sul labbro. Esamina un’opera sorretta dall’assistente o dal servo o da chicchessia al centro, che forse non è nemmeno un’opera, ma uno specchio riflesso. Perché?

Rembrandt, Satira della critica d’arte, 1644, The Metropolitan Museum of Art, New York

Sopra il quadro-specchio c’è una figura piegata un po’ in avanti con la faccia da scimmia che porta al collo l’onorifica catena d’oro che viene consegnata solitamente agli artisti dai nobili committenti. E perché la danno a uno scimmione? Come se i critici fossero incapaci di riconoscere i geni dalle scimmie, o un quadro da uno specchio.

Sulla sinistra invece, c’è il conoscitore per eccellenza: un uomo con un cappello in testa e due orecchie d’asino lunghe lunghe, mentre la sua mano indica l’opera. Le tipiche orecchie d’asino che nella mitologia si era accattato il re Mida per aver giudicato male il talento canoro di Apollo.

E infine, ciliegina sulla torta, il pensiero dell’artista. Una figura in primo piano che guarda fuori dal disegno, con tratti non dissimili da quelli di Rembrandt, con le brache calate mentre si pulisce il didietro.

Non è questo il motivo determinante la caduta del pittore, ma uno dei piccoli frammenti che trasforma un vaso in piccoli cocci.

Figura contraddistinta, sia nel disegno che nella vita. Che prende la puzza sotto al naso degli altri e il loro giudizio e li trasforma in carta igienica. Figlio di un mugnaio e pecora nera nell’arte. Vissuto in una città che gli ha dato soldi, fama e amore e poi glieli ha tolti. Forse tutto questo a corte non sarebbe successo. Forse il critico Huygens non gli avrebbe nemmeno remato contro se lui gli avesse dato retta. E invece si ritrova a essere una pecora in difficoltà davanti al grande potere del giudizio. Un giudizio che mette in dubbio la sua genialità.

Perché a far le cose con la capoccia propria, il più delle volte, si va a sbattere. Ma non indossare maschere è meritevole, e prima o dopo viene a galla. Non sempre, ma spesso si spera.