Jeff Koons in 3 opere.

Jeffrey Koons (York, 1955).

Jeffrey Koons, York, 1955

Oltre ai finti palloncini e alle foto scattate davanti ai finti palloncini ci sono altre opere, molte opere. Opere come Equilibrium e The New. Queste opere di Koons entrano negli anni ’80 nei musei d’arte contemporanea e non li lasciano più. Lo spettatore entra, le guarda e l’occhio fatica ancora un po’. Le scruta e le riguarda e ‘questa cosa qui? Potrei farla anch’io’ dice usando un condizionale contestabile. Ma Jeffrey Koons della Pennsylvania con queste cose qui che potrebbero pensare o fare in molti, diventa uno degli artisti più acclamati e più comprati al mondo.

The New (1981)

The New, 1981, Jeff Koons

È una banalissima aspirapolvere. Una non banalissima installazione di aspirapolveri messe insieme. Ma l’artista vede altro oltre al cattura polvere. Le mette tutte in piedi come fossero uomini. A gruppetti come fossero tipologie antropologiche differenti: il trio familiare con mamma aspirapolvere, papà aspirapolvere e figlio aspirapolvere. Le aspirapolveri gemelle, le aspirapolveri fidanzate.

The New, 1981, Jeff Koons

Tutte nuovissime. Nuovissime sempre e per sempre. Mai utilizzate e mai lo saranno. Inventate e create nel regno americano dei supermercati e del consumo, dove gli oggetti vengono creati per essere comprati e utilizzati, ma dove non verranno né comprati né utilizzati. Bensì contemplati. Dal supermercato al museo. Un salto di società importante per un’aspirapolvere. L’artista le toglie dai loro habitat naturali e li ficca dentro a musei per essere contemplati da milioni di persone che pagano il biglietto per contemplarli. Le mette lì in piedi o distese, come fossero macchine viventi, macchine respiranti e aspiranti. Come fossero macchine umane che aspirano tutto quello che c’è in giro, polvere e non polvere. Aspirano, aspirano fino all’ultimo respiro.

 

Equilibrium (1985)

Three Ball Total Equilibrium Tank, 1985, Jeff Koons

Tre palle da basket. 1, 2, 3. Il processo per farle stare eternamente allineate e sospese nell’acqua dentro a una teca è stato attentamente studiato e ben riuscito. Le palle non cascano mai, non galleggiano mai, non affondano mai. Restano perfettamente sospese in una soluzione di acqua distillata e cloruro di sodio. Perfettamente al centro. L’equilibrio perfetto. L’equilibrio che dovrebbe essere nostro. L’equilibrio che Koons vorrebbe fosse nostro. Dell’essere umano. Centrato e sospeso. Koons sceglie tre palle da basket per rappresentare l’equilibrio eternamente perfetto, eternamente e perfettamente umano. Sceglie il basket perché quale sport meglio di questo rappresenta l’america. E perché quale nazione meglio di questa rappresenta l’ottimismo. E l’ameicanismo e l’ottimismo americano nelle opere di Koons si presenta spesso.  Quello dove tutto è possibile. Dove tre palle da basket possono essere qualcosa in più. Dove chi centra spesso un canestro con quelle palle da basket può diventare qualcosa in più.

Three Ball Total Equilibrium Tank, 1985, Jeff Koons

 

Inflatables (anni a seguire)

Flower and bunny, Inflatables, 1979, Jeff Koons

Palloncini di plastica e finta plastica. Palloncini colorati e gonfiati in tutte le forme. Conigli, cani, fiori, e ballerine. Addirittura aragoste e delfini. Plastica o metallo riflesso dove la gente può specchiarcisi dentro e farsi due foto. Perché le opere di Koons non potevano che non diventare lo scenario perfetto del consumismo fotografico. Fatte con il materiale di consumo per eccellenza. Plastica, metallo e colori ovunque. Oggetti belli gonfi e belli in vista. “Perché l’importante” dice Koons “è il gonfiore”. Gonfiarsi, ispirare, riempirsi d’aria. Pieni di aria e pieni di vita. L’importante è essere come dei palloncini. Colorati e splendenti. Inalare, assorbire, fare un bel respiro, trattenere forte e svolazzare. Stando attenti a non scoppiare.

Ballon dog, 1994, Jeff Koons

Seated Ballerina, 2017, Jeff Koons

 

Rosachiara Pardini

 

 

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Intervista immaginaria a Ofelia di John Everett Millais, (Lizzie Siddal).

Elizabeth Eleonor Siddal.

Preferisco Lizzie.

Elizabeth Siddal, Dante Gabriel Rossetti, 1854, Delaware Art Museum

Lizzie. È questo il nome del volto preraffaellita: Lizzie, Lizzie Siddal.

Sì. Non ero solo un volto. Ero una poetessa e pittrice, scrittrice, amavo scrivere e poi sì, ero anche modella, amavo posare. Potevo stare ore a scrivere e ore a posare.

Quanti anni avevi?

Vent’anni. Era il 1848. La regina Vittoria era salita sul trono già da una decina di anni e le cose stavano cambiando anche culturalmente. Si era appena formata una confraternita, una congregazione di pittori alla ricerca di un’arte nuova e simbolista e molto purista. Si facevano chiamare i Prerafaelliti. Volvano andare indietro, tornare indietro, prima di Raffaello, prima della natura perfetta, prima del naturalismo e ancor prima. Volevano tornare alla purezza e alla fede e a queste cose qui insomma. Con donne beate e angeliche e un po’ fragili… Buffo.

Buffo? Cosa è buffo?

È buffo il fatto che in un’età come quella, quella in cui è iniziato la prima emancipazione femminile, loro avessero nostalgia della nostra fragilità.

E tu per loro la rappresentavi molto bene questa fragilità, giusto?

È un’offesa?

No, lo è?

Probabilmente lo è. Il mio carattere non era fragile, sai? La mia salute un po’ di più e il mio aspetto anche, ma il mio carattere no. Il mio aspetto si prestava perfettamente a quello che cercavano. Ero magrolina e leggiadra, con la pelle chiara chiara e i capelli rossi e gli occhi blu. Ma dentro no… dentro mi agitavo anch’io e scrivevo e dipingevo anch’io quando ero agitata, esattamente come loro. Dante lo sapeva.

Dante?

Dante Gabriel Rossetti, (Londra 1828 – Birchington-on-Sea 1882

Il gruppo era composto da John Everett Millais, William Hunt, Ford Madox Brown, William Trost Richards, William Morris, Edward Burne – Jones, John William Waterhouse e c’era anche Dante, mio marito. Dante Gabriel Rossetti. L’uomo della mia vita. Ho scritto tantissimo per lui e lui per me. Ho una pila di lettere e poesie e biglietti che ci siamo scritti durante gli anni e quando sono morta mi ci ha seppellito insieme.

Ti ha seppellito insieme alle lettere?

Sì, come gesto d’amore. Me le ha messe sparse tra i capelli. Amava i miei capelli, li ritraeva sempre e me li accarezzava sempre. E io scrivevo. Amava quello che scrivevo per lui. Così mi ha seppellito insieme a loro. Mi dipingeva tantissimo mentre scrivevo.

Elizabeth Siddal in a chair, Dante Gabriel Rossetti, Tate Gallery, Londra

Questo disegno è il tuo preferito?

Di me? Non lo so. Uno dei tanti, insieme a Ofelia.

Ofelia non lo ha dipinto lui, eppure è stato il tuo ruolo più importante, o almeno quello più conosciuto.

Sì. Ofelia, è stato Ofelia di Millais. Colui che mi ha fatto morire.

Ophelia, John Everett Millais, 1852, Tate Gallery, Londra

Quindi è vero?

È vero cosa? Che è stato lui a farmi morire? Ho già detto che la mia salute non è mai stata possente, ma posare per il ruolo di Ofelia non l’ha aiutata a migliorare. Era il 1852. Avevo ventitré anni. Millais decise di dipingere Ofelia di Amleto: personaggio inglese e puro e perfetto per il preraffallismo. Dipinse il paesaggio en plein air senza mai fermarsi. Lo dipinse tutto in un giorno. Così fece anche con me. Ci dipinse tutto d’un fiato, ma separatamente: prima il paesaggio e poi me. M’infilò in una vasca da bagno del suo appartamento con delle candele accese tutt’intorno e l’acqua riscaldata. io restai lì tutto il tempo. Non ero comoda e non era facile. Ma restai lì tutto il tempo. ferma e immobile a farmi ritrarre pensando al momento in cui avrei visto il mio ritratto. Sono stata ore e ore in quella vasca e ore e ore a congelare. Non per amore di Millais. Per amore di quello che stava creando e per amore di quello che è possibile creare. La sua dedizione mi ha fatto restare. È stata la sua dedizione per l’arte a farmi restare. Il mio amore per l’arte a farmi restare. Il problema è che l’acqua riscaldata dopo un po’ smette di essere calda e così congelai. Quando si ama qualcosa si fanno cose strane.

E lui continuò?

E lui continuò. Io non dissi niente e restai lì a congelare. Sapevo che non mi avrebbe fatto bene, ma la curiosità di vedere il mio ritratto e la sua concentrazione nel farlo e la mia dedizione a posare per lui mi hanno fatto continuare. Sarei potuta andarmene, uscire dalla vasca e asciugarmi come farebbero tutti. Magari sarei stata meglio e avrei vissuto più a lungo, ma restai e vidi il mio ritratto. Poco dopo mi ammalai. La passione ti spinge a fare cose strane… Mi ammalai di una malattia dalla quale non guarii mai. Ma il ritratto è davvero bellissimo, non lo trovi bellissimo?

Sì, lo trovo bellissimo.

Se non fossi rimasta, non sarebbe mai esistito. Non pensi sarebbe stato un peccato? Otto anni dopo quel ritratto, mi sposai con Dante. Me lo ha fatto faticare quel matrimonio. Rimandava sempre e io lo aspettavo e lui rimandava. Abbiamo avuto un sacco di problemi. E a causa loro sono diventata depressa. O viceversa. Abbiamo avuto un sacco di problemi perché tendevo alla depressione. Alla fine morii. Dicono che lui abbia sofferto molto, sai?

È così che dovrebbe essere.

Sì, quando ci si ama molto è così che dovrebbe essere. Ma quando ci si ama molto si fanno cose strane. E quando si soffre molto si fanno cose forse ancora più strane. Qualche anno dopo, una notte, Dante è voluto venire a trovarmi riaprendo la mia tomba. Perché? Mi sono chiesta tante volte perché avesse fatto una cosa così macabra? Ho pensato fosse impazzito o che gli mancasse semplicemente il mio viso. Ha detto a tutti che il mio viso era ancora bello e intatto dopo avermi visto, non so se gli hanno creduto. Però non mi ha solo guardata, ha preso anche le nostre poesie. Tutte le nostre lettere e le nostre poesie. Dovevano rimanere con me per sempre, tra me e lui per sempre, e lui le ha pubblicate. Le ha prese per renderle pubbliche al mondo intero. Mi sono sempre chiesta perché lo avesse fatto. Se per disperazione o per altro. Se per amore o per altro. Se per amore per me, per amore per l’arte o per amore di quello che la fama e il denaro ti portano. Ma non voglio pensarci. Quando si ama qualcosa si fanno cose strane e si pensano cose strane.

 

Rosachiara Pardini

 

 

 

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Pipilotti chi? Pipilotti Rist in 3 opere.

Pipilotti chi? Pipilotti Rist (Grabs, 1962).

Elisabeth Charlotte “Pipilotti” Rist (Grabs, 1962)

Intimista e surrealista realista. Un’artista svizzera che comincia negli anni ’80 a sperimentare video e installazioni che hanno il genere umano come protagonista e tutte le paturnie e non paturnie che ne fanno parte. E tira fuori tutto con degli apparecchi elettronici.

 “Abbiamo così tanti rumori di apparecchi elettronici intorno a noi costantemente che se li utilizzi per mostrarne il contenuto poetico e filosofico riesci a riconciliare il tuo corpo con essi”.

Così descrive la Rist la sua video arte.

Elisabeth Charlotte “Pipilotti” Rist (Grabs, 1962)

I’m not the girl who misses much (1986).

I’m not the girl who misses much/Positive Exorcism, Pipilotti Rist, 1986

Sullo schermo c’è una donna sfocata. Solo una donna sfocata, capellona, castana, in primo piano con un rossetto rosso che poi si allontana e si riavvicina e si riallontana dallo schermo meccanicamente. La donna canta ripetuttamente una frase muovendosi velocissimamente, come una pazzoide malconcia vestita con un completo nero e le tette scoperte. I’m not that girl who misses much, i’m not that girl who misses much. Canta istericamente la stessa frase come fosse un disco impallato. Il suono è fastidioso e l’immagine distorta. I’m not that girl who misses much è la prima frase della canzone Happiness is a warm gun dei Beatles. John Lennon lesse questo titolo su un articolo di una rivista pubblicato negli anni ’60. La felicità è un’arma bagnata. La frase gli sembrò così “fantasticamente folle” da ricopiarla e inciderla su un disco, forse come protesta. E fantasticamente Rist utilizza la prima frase della canzone nella sua opera, forse anche lei come protesta. La mette nella bocca di una sorta di donna burattino manichino che si muove pazzoidamente come fosse esorcizzata. Esorcizzata da cosa? Dalla manipolazione? Dalla manipolazione di chi e di che cosa? È possibile esorcizzarsi dalla manipolazione di qualcuno o qualcosa? Positive exorcism è il titolo alternativo dell’opera. Positive. Positivo. La risposta quindi è sì. Probabilmente sì. Ci si può esorcizzare da qualsiasi cosa. Anche dall’ossessione che manchi sempre qualcosa. I’m not the girl who misses much.

Sip my ocean (1996).

Sip my ocean, Pipilotti Rist, 1996

‘The world was on fire and no one could save me but you

It’s strange what desire will make foolish people do

I’d never dreamed that I’d meet somebody like you

And I’d never dreamed that I’d lose somebody like you

No, I don’t want to fall in love

No, I don’t want to fall in love

With you

With you

What a wicked game you played to make me feel this way

What a wicked thing to do to let me dream of you’

 

Una canzone messa insieme a un video, di nuovo. Ma stavolta la Rist sceglie Wicked Game di Chris Isaak per la sua video opera Sip my ocean. Sip my ocean, Sorseggia il mio oceano. L’oceano in fondo in fondo con qualche oggetto che affonda, e la Rist che ci si tuffa dentro senza affondare, ma sguazzandoci dentro.

“I don’t want to fall in love with you”

Non voglio innamorarmi di te. Non voglio innamorarmi di te.

E poi una voce che lo grida ancora più forte. Tanto forte come quando si grida contro una cosa che non si vuole ma ormai già successa. E lo spettatore resta lì al centro della stanza e davanti a uno schermo gigante con un oceano gigante, dove affondano cose. Lo spettatore resta lì a guardare, la Rist continua a nuotare e la voce continua a gridare non voglio innamorarmi di te. Cos’è che affonda? La paura di innamorarsi o l’amore stesso o noi stessi quando ci innamoriamo…  qualsiasi cosa o paturnia sia l’importante è sapere sguazzarci dentro.

Ever is over all (1997).

Ever is over all, Pipilotti Rist, 1997

Sullo schermo Pipilotti passeggia. Passeggia con un vestito azzurro e delle scarpette rosse. Ha i capelli legati e tiene in mano un fiore. La musica di sottofondo è lenta e anche Rist si muove lentamente. Sorride e continua a passeggiare per la strada a rallentatore con il vestito svolazzante. C’è la musica e ci sono degli uccellini che cantano. La Rist inizia a guardare una macchina parcheggiata al lato del marciapiede, sorride, alza il fiore e lo sbatte sul finestrino della macchina distruggendolo come se stesse usando un bastone. La musica s’interrompe e si sente il fracasso. Poi la musica riprende e Rist continua a passeggiare. Rist continua così, per tre minuti di video continua così. Incontra vari passanti e varie macchine. Distrugge molti finestrini e sorride a tante persone, anche a un poliziotto, che magicamente la guarda, le sorride e passa oltre. Ma perché l’artista dovrebbe distruggere i vetri dei finestrini delle macchine con un fiore al posto del bastone, indossando un vestito azzurrino e le scarpette rosse? Per rappresentare la rabbia e l’emancipazione, dice l’artista. L’artista rappresenta la rabbia e l’emancipazione con un fiore, vetri rotti e un vestito svolazzante. Sorridente. Sorridente perché arrabbiarsi per emanciparsi è una cosa bella o perché emanciparsi dalla rabbia è una cosa bella?

 

 

Rosachiara Pardini

 

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William Kentridge e le formiche bianche.

William Kentridge (Johannesburg, 1955)

William Kentridge (Johannesburg, 1955). Sudafricano, contemporaneo, concettuale, artista, attivista, anti razzista. Disegna, riprende, allestisce e scolpisce. Fa un po’ di tutto e in questo tutto racconta.

Racconta i suoi sensi di colpa. Che spesso corrispondono all’essere bianco in una terra nera invasa da bianchi. In una terra in cui l’apartheid è sopravvissuto nei suoi primi quarant’anni di vita e la democrazia è esplosa negli ultimi venti. Racconta le contraddizioni e le ingiustizie e il suo rapporto personale con il mondo, che tanto personale non è.

“L’artista difende le incertezze e critica le certezze di tutte le forme autoritarie esistenti. Mostra come diamo senso al mondo invece che mostrare il significato del mondo, che poi un significato vero e proprio il mondo non è che lo abbia. Mostra come siamo in grado di capire un concetto, senza mostrare quello che capiamo”

Dice Kentridge, e così ci lascia liberi di capire la sua opera.

2002. Johannesburg e un’invasione delle formiche. Avviene davvero. A Johannesburg, la città d’oro, in cui l’invasione bianca a caccia di diamanti e sberluccichii ha schiacciato negli anni quello che c’era prima. Città d’oro in cui l’invasione bianca ha piantato radici, emarginato quelle vecchie, piantato leggi malsane e malaticce. La città viene invasa da formiche. Nel 2002 tantissimi piccoli pallini neri iniziano a spargersi ovunque. L’artista li guarda e li riprende. Prende dello zucchero, una caffettiera, una matita, delle forbici e del caffè, e crea Day for night: giorno per la notte, bianco e nero, chiaro e scuro, luce e ombra. Un’opera a cortometraggio su pellicola semplicissima.

William Kentridge, Day for Night, 2003, MoMA, New York

Con dell’acqua e dello zucchero attira le formiche nel suo studio, traccia dei disegni astratti e figurativi sul pavimento: costellazioni, figure umane, segni zodiacali… aspetta che le formiche ripercorrano i sentieri già tracciati per poi iniziare a filmarle.

Apparecchia un tavolo. Lo apparecchia con degli oggetti che usano gli uomini quotidianamente: una caffettiera, una matita, una forbice e del caffè. Le formiche non dovrebbero gironzolare intorno a questi oggetti. Le formiche non dovrebbero salire sui tavoli e percorrere disegni tracciati.

William Kentridge, Day for Night, 2003, MoMA, New York

Le formiche solitamente vengono schiacciate o ammazzate con dell’insetticida. E invece le formiche di Kentridge invadono il tavolo e tutto quello che c’è sopra. Come fossero piccoli alieni che invadono un pianeta sconosciuto, un paese già abitato. Invadono un tavolo già abitato da una caffettiera, una matita, una forbice e del caffè.

Kentridge filma l’invasione invertendo la pellicola, così quello che è nero diventa bianco e quello che è bianco diventa nero.

Il bianco del tavolo diventa il nero dell’universo, e le formiche nere diventano puntini bianchi che disegnano arabeschi e invadono gli spazi come fossero astronauti. In un pianeta diverso, dove è ammissibile occupare senza morire e dove è possibile continuare a camminare. Un tavolo nero, un mondo nero. Un’opera e un pianeta in cui è possibile essere neri e bianchi allo stesso tempo, in cui si disegnano costellazioni e forme strane e figure umane allo stesso tempo. Formiche nere, formiche bianche. Camminano, camminano e disegnano. E infine cosa disegnano? In mezzo a tutti questi scarabocchi impiastricciati nello zucchero cosa disegnano?

Disegnano un uomo vitruviano.

E perché delle formiche nere, ma mascherate di bianco, intinte nello zucchero, dovrebbero disegnare un uomo vitruviano nella testa di Kentridge?

L’uomo vitruviano è la rappresentazione per eccellenza dell’uomo perfetto. L’uomo d’eccellenza. Con proporzioni perfette. Testa, mani, braccia e gambe perfette. La perfezione divina e terrestre.

Kentridge le porta a disegnare l’uomo vitruviano. Potrebbe schiacciarle, emarginarle, ucciderle con un’insetticida per formiche. Ma non le uccide con un’insetticida per formiche. Le lascia camminare sopra l’uomo perfetto, con sfondo nero e bordi bianchi.

 

Rosachiara Pardini

 

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Joseph Beuys e il coyote. I like America and America likes me.

Joseph Beuys. A parte la stanza e a parte il coyote non ha toccato altro e non ha visto altro. Non ha visto l’America. Non l’ha toccata nemmeno con un piede. Arrivato all’aeroporto di New York JFK si è fatto trasportare infetto e bendato su una barella infilata in un’ambulanza fino alla Renè Block Gallery di Downtown e si è chiuso in una stanza. Maggio 1974. Insieme a un coyote. Per tre giorni. Lui e il coyote.

“Volevo isolarmi, non vedere nient’altro oltre al coyote”.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

Ma perché proprio lui? Perché un coyote? Proprio il coyote perché è un canide lupino indigeno del Nord America. Animale selvaggio. Animale antico. Animale consueto nel folclore dei nativi americani. Simbolo delle origini americane. Prima che l’America si chiamasse America, lui era già lì.

E se alla fine dell’opera d’arte durata tre giorni, i due coinquilini si fossero adattati l’un l’altro, allora Beuys avrebbe potuto dire che I like America and America likes me.

E così ha intitolato la sua opera d’arte.

L’opera d’arte è la performance stessa. Visibile integralmente solo da chi a maggio del 1974 era a New York, alla galleria Renè Block a 409 West Broadway, a SoHo, in piedi a guardare Beuys e il coyote. Alcuni tratti spezzettati sono però ancora visibili alla Tate Modern di Londra o su internet, perché girata in parte su pellicola di 16 mm in bianco e nero.

Sulla pellicola di 16 mm si vede Beuys con un cappello, un gilet e una coperta di feltro addosso. Ha un bastone eurasiatico. Come fosse uno sciamano e il coyote il suo sciacallo dorato (l’antenato ancora più antico del coyote).

Convivono dentro a una stanza per tre giorni. All’inizio l’animale diffida dell’uomo. Morde il bastone e morde la coperta, ma non morde lui. Si scrutano e si girano attorno. Dormono. Mangiano. È Beuys a mettere ciotole di acqua e di cibo a disposizione del coyote. Natività e civiltà che s’intrecciano e si assemblano e si adattano. I like America and America likes me.

Il coyote non lo morde mai, non lo attacca mai. E lo stesso fa Beuys. Il coyote tendenzialmente non è un animale aggressivo, non tende ad attaccare l’uomo e non attacca Beuys.

“All’America piaccio. Alla natura piaccio”. E la gente li guarda e decide se gli piace o no quello che guarda, a seconda di quello che interpreta. E le interpretazioni sono tantissime. Contraddittorie come l’opera stessa che stanno guardando.

Animale gregario e solitario allo stesso tempo. Adattabile e ribelle allo stesso tempo. Animale contraddittorio in un Paese contraddittorio. Dentro all’arte contraddittoria.

Joseph Beuys, I like America and America likes me, 1974, Renè Block Gallery, New York

 

 

 

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Ce n’est pas du porno. L’origine del mondo di Gustave Courbet.

Non è pornografia questa cosa qui. Sembra più anatomia. Arte anatomica. Perché Courbet più che trovare allusioni dipingendo, descrive semplicemente le cose così come sono, così come si vedono, senza peli, o più che altro senza veli.

L’origine del mondo, 1866, Gustave Courbet, Museo d’Orsay, Parigi

Anche oggi appena si guarda L’origine del mondo si tira un attimo la testa un po’ più indietro con gli occhi un po’ più aperti. Perché non si vede in tutti i quadri una vagina così grande, esistente, consistente, concreta, come se la proprietaria stesse spiattellando in faccia al pubblico il suo fiore in boccio. Fa sempre un po’ effetto la schiettezza e la grandezza di un primo piano dedicato all’anatomia della vulva. Ma perché? Forse perché è inaspettatamente schietto e sincero. Perché Courbet quando dipinge è schietto e sincero. Non allude e non nasconde, non vela e non rivela. Rappresenta solo ciò che ha davanti. Così com’è. Il realismo puro e incorrotto.

Guarda, osserva, studia e riproduce. Ed eccola qui, una vagina gigante con le grandi labbra, il clitoride che spunta, i peli ricci e neri, la riga in mezzo del davanti e del di dietro, un po’ di cosce, una pancia con l’ombelico al centro e una mezza tetta. Il lenzuolo se c’è o non c’è fa niente. Ecco fatto. La vagina gigante. L’origine di tutto. Forse di tutto tutto no, ma dell’uomo sì.

La data di creazione è il 1866. Non è la prima volta che Courbet ritrae una patata nuda, né la prima volta che il committente, il diplomatico turco-egiziano Khalil Bey, ne richiede una. Pare che l’ottomano fosse molto affezionato al corpo femminile, così tanto da avere una collezione intera di dipinti erotici e nudi e anatomici. Una collezione erotica, pornografica, porno d’élite, anatomia artistica. Quello che è insomma. Aggiunge il quadro di Courbet alla sua collezione una volta pronto e partorito. Lo tiene con sé, ma non per molto, fino a che non perde tutti i suoi averi per l’ossessione del gioco d’azzardo. A quel punto la vagina gigante viaggia e gira nelle mani di molti fino al 1995. Nel 1995 entra nel Museo d’Orsay di Parigi da dove non è ancora uscita.

Una tela non poi così grande. 46×55 cm. Eppure quello che c’è dentro sembra abnorme. Perché c’è solo lei. Solo lei, senza un volto. Senza un volto a cui associarla. O almeno non c’era. Recentemente si è scoperto che forse, la patata gigante di tutte non è. Ha una proprietaria. Sembra appartenere a una ballerina, Constance Quéniaux, diventata amante del committente egiziano.

Constance Quéniaux, Saint-Quentin, 1832 – Parigi, 1908

Il ricercatore francese Claude Schopp, durante lo studio di uno scambio epistolare tra Alexander Dumas figlio e la scrittrice George Sand, legge una frase. Una frase in una lettera che Dumas scrive e spedisce alla scrittrice nel 1871, parlando di Courbet:

“on ne peint pas de son pinceau le plus délicat et le plus sonore l’intérieur de Mlle Quéniaux [sic] de l’Opéra”

(“uno non dipinge col suo pennello la più delicata e sonora intimità della signorina Quéniaux dell’Opéra”)

Quéniaux. Intimità. Pennello. Schopp associa queste tre parole al fatto che la ballerina Quéniaux fosse l’amante del committente proprio nel periodo in cui Courbet dipingeva L’origine del mondo. E allora forse l’intimo, l’interno delicato e sonoro è proprio suo. Dell’allora trentaquattrenne ballerina francese.

E se l’ipotesi fosse vera per davvero, perché sul cavalletto Courbet non ha dipinto la faccia della ballerina? Bella era bella. Magari l’ha dipinta e poi ha tagliato il quadro in due. O magari non ha tagliato niente. È sempre stato così com’è.

Le ipotesi sono tantissime, ma alla fine non avere un volto è stata forse la sua fortuna. Perché se ci fosse stato, il quadro probabilmente avrebbe creato molto più scandalo in un museo negli anni in cui è stato esposto. Forse è proprio l’anonimato che lo ha salvato. In modo che questa vulva potesse essere libera, essere un po’ di tutte, potesse essere davvero l’origine del mondo e non fraintesa come un nudo qualunque.

E forse non è stato solo l’anonimato a salvarla. Se si fosse intitolato Vagina gigante o Facciamo l’amore o Patata all’aria o Masturbazione, forse non sarebbe stata la stessa cosa. Non sarebbe stata esposta e vista come quello che poi alla fine sempre sarà. L’origine dell’essere umano e tutto ciò che l’essere umano comporta e porta nel mondo. L’origine del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

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Intervista immaginaria: La Noix de Coco (Jeanne Hébuterne) di Modigliani.

 

Jeanne Hébuterne, Noix de Coco (Meaux, 1898 – Parigi, 1920)

Sei conosciuta grazie a una storia d’amore.

Sì, grazie a una storia d’amore.

Lo chiami Modì, Dedo, Amedeo?

Lo chiamo in tutti i modi. Il mio Modì. Il mio Dedo. Il mio Amedeo.

Amedeo Clemente Modigliani, Modì, Dedo (Livorno, 1884 – Parigi, 1920)

Il tuo Modì. Da dove vuoi partire?

Dall’inizio inizio della storia. Perché all’inizio non volevo essere conosciuta per amore, volevo essere pittrice. La più bella pittrice di Parigi. Volevo dipingere tantissimo, tutto il giorno e che le mie tele fossero sparse ovunque e che fossi conosciuta ovunque. Mio fratello diceva che ero brava! Mi ero trasferita e iscritta a Parigi all’Académie Colarossi. La mia famiglia mi ha pagato gli studi perché non sapeva quello che li aspettava. La mia famiglia è bigotta. Benestante e bigotta. Era d’accordo sull’accademia, ma non su quello che ci ho trovato dentro. Modì. L’accademia mi ha portato da lui. Nel 1917. Lui aveva trentadue anni e io diciannove. Lui italiano, io francese. Lui alto alto moro e sicuro. Difficile. Senza soldi. Era bravo, molto più bravo di me. Era agitato, aveva mille rovelli per la testa, mentre il mio unico rovello è diventato lui. Stare dove stava lui.

E così è stato?

Così è stato. A modo nostro.

A modo vostro?

Appiccicati. Eravamo sempre appiccicati. Lui si spostava e io mi spostavo. La mia famiglia lo odiava e io odiavo la mia famiglia. Li ho mollati e sono andata con lui a vivere a Nizza un anno dopo ed è lì che ha iniziato a dipingere tantissimo, come non aveva mai fatto prima. Perché ormai c’ero io, la cosa che preferiva dipingere più al mondo, la cosa che preferiva più al mondo. Mi ritraeva in tutti i modi e io ritraevo lui. Stavamo appiccicati sempre. A volte non parlavamo neanche. La gente ci guardava seduti ai tavoli dei bar appiccicati e ammutoliti. Dicevano che ero scialba perché non parlavo. Ma le parole non serve dirle sempre.

Ritratto di Jeanne Hébuterne, 1919, Amedeo Modigliani, collezione privata

Una storia rosa e fiori insomma…

Con tante spine. C’erano momenti in cui mi mollava per andare a bere da altre parti e quei momenti erano tantissimi. Beveva molto. Moltissimo. Io andavo a casa e lui andava a bere. Lo faceva come mezzo, non come fine. Lo faceva per stimolarsi, sentire di più e di più, produrre di più, vedere di più. Non era un ubriacone, era alcolizzato sì, ma non puzzava mai di vino, non era un ubriacone. Lo criticavano ed etichettavano. Mormoravano, cinguettavano… quelle civette! Quelle carogne beote. Senza sapere cosa dicevano. Beveva e dipingeva e poi sì, guardava le altre donne per dipingere anche loro.

Nu couché, 1917, Modigliani, collezione privata

La Belle Romaine, 1917, Modigliani, collezione privata

Parlami di loro.

Loro. Amedeo le ritraeva nude anche dopo aver incontrato me. C’era Margherita, c’era Thora, c’era Elvira, c’era Lucienne, Gaby. Alcune le preferiva rispetto ad altre, alcune si vedono di più rispetto ad altre, e io molto più delle altre mi sono sempre chiesta il perché. Alcune di loro avevano seni grandissimi e occhi neri nerissimi. È dopo aver visto quegli occhi nei quadri che ho iniziato a chiedermi come sarei stata se avessi avuto gli occhi neri come loro. A volte erano scure, oscure, con mille paturnie e fardelli. Altre volte più pallide e sgonfie, precise. Amedeo le ritraeva spesso nude. Erano belle nude, erano belli quei nudi e mentirei se dicessi il contrario. Ma di quello che sentivo io mentre li faceva non ho voglia di parlare. Era difficile stargli dietro, accanto, ma sono riuscita sempre a farlo e lui è riuscito sempre a tornare da me.

Nudo in piedi, 1918, Modigliani, collezione Walter Hadorn a Berna

Da te. La sua noix de coco.

Sì, così mi chiamava. Noix de coco. Perché come la polpa del cocco la mia pelle era bianca bianca e i miei capelli scuri scuri come l’esterno della noce.

Come era farsi dipingere da lui?

Molti dicevano “era come farsi spogliare l’anima”. Per me era ancora più di questo. A volte era tanto di più che ero contenta non ci mettesse molto a ritrarmi. Solitamente in una o due sedute aveva fatto. Ma poi c’erano altre volte, quelle volte in cui speravo non finisse mai. Modì diceva “non dipingerò nei miei quadri gli occhi fino a quando non conoscerò l’anima delle persone”. Occhi azzurri è uno dei primi ritratti che mi ha fatto. Occhi azzurri, così lo ha intitolato. L’anno in cui ci siamo incontrati.

Occhi azzurri, 1917, Amedeo Modigliani, Philadelphia Museum of Art

Primo ritratto di Noix de Coco, 1917, Modigliani

Nessun rimpianto?

Nessun rimpianto. Quando lui si è ammalato e mi ha lasciato era il 24 gennaio del 1920. Avevamo una bambina. L’abbiamo chiamata Jeanne, come me. Le due cose che amava di più. Due giorni dopo la sua morte non ce l’ho fatta. Sono salita al quinto piano del palazzo e ho guardato giù. Il pancione con il secondo figlio non riusciva a farmi vedere bene, ma mi sono sporta un po’ di più e basta. Ho dedicato tutto a lui, la mia vita e la mia morte e la vita degli altri, ma questa è un’altra storia.

 

 

 

 

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Un crocifisso, dell’urina e un barattolo. L’opera Piss Christ di Andres Serrano.

Andres Serrano (1950, New York).

Andres Serrano, (New York, 1950)

Piss Christ. Una statuetta di cristo crocifisso immersa nel piscio, fotografia scattata ed ecco l’opera d’arte. Opera d’arte che nel 1989 viene esposta e vince un premio: Awards in the Visual Arts. Un premio di 15mila dollari messo in palio dal Southeastern Center for Contemporary Art, sponsorizzato da un ente governativo statunitense. Ma non tutti sono d’accordissimo. Chi non è d’accordissimo è immaginabile. I cattolici la trovano tanto offensiva e volgare da infrangere il vetro e danneggiare la fotografia una volta esposta al museo Collection Lambert di Avignone nel 2011. “È offensiva!”.

Piss Christ, 1987, Andres Serrano

“Ma non penso sia offensiva. È la riflessione del mio lavoro, sia come artista sia come cristiano“ dice Serrano. Cristiano cattolico americano cresciuto in chiesa. Ma solo fino a tredici anni.

“I tredici anni sono l’età in cui un ragazzo o ascolta la voce di Dio o ascolta il proprio corpo. Se sei un ragazzo sveglio, ascolti il tuo corpo” e lui lo ascolta. Lo ascolta così tanto da farne un’arte. Urina e sperma e sangue. Mostrare al mondo intero i propri residui organici. E perché? Perché l’arte è libera e la libertà d’espressione è legittima. Libertà esposta e vincitrice di un premio. 15mila dollari dati a un artista povero esordiente che mette un crocifisso in un barattolo dopo averci urinato dentro.

“Cosa sono diventato grazie anche a quei soldi? Un artista dal nome grande. È stato un grandissimo investimento per lo Stato e per gli Stati Uniti”.

Ma non tutti anche qui sono sempre stati d’accordo. Due parlamentari, appena Serrano vince il premio, si riuniscono in aula per dichiarare l’opera volgare e blasfema e non meritevole 15mila euro perché oltraggiosa, soprattutto quando i dollari provengono dalle tasche dello Stato.

Ma Serrano continua a difendersi. “Io non voglio scioccare nessuno. Sono cristiano”.

A difenderlo, colpo di scena, c’è anche una suora. Suora Wendy Beckett che non è solo una suora, ma anche una critica d’arte. Suora Beckett descrive l’opera come la rappresentazione del modo in cui la società contemporanea si pone nei riguardi di Cristo e dei valori che rappresenta.

Gli anni dopo Serrano continua.

Blood and Semen II. L’artista mischia nell’opera sangue e sperma che poi fotografa.

Blood and Semen II, 1990, Andres Serrano

Ma perché lo sperma? Perché alla ricerca di nuovi colori. E fa così tanto parlare di se’ da diventare la copertina dell’album Load dei Metallica e la stampa di vari capi di abbigliamento del marchio Supreme NYC.

Sangue mestruale, urina e latte materno quindi non bastano. Inizia a eiaculare su tela. A eiaculare così tanto da intitolare una delle sue opere Ejaculate in Trajectory. Eiaculazione. Mostrare a tutti quanti i propri liquidi come fossero pennellate bianche. Come se masturbarsi su una tela fosse un’arte.

Ejaculate in Trajectory, 1989, Andres Serrano

Madonna and Child II. Un’altra opera fatta di residui liquidi corporei.

Madonna and Child II, 1989, Andres Serrano

“Sono religioso, non più cattolico, ma sempre cristiano. Io non denuncio il cristianesimo, voglio solo rappresentarlo, a modo mio”.

E Serrano rappresenta e manifesta a modo suo la religione. Cosa intima e sacra. E come? Con qualcosa di altrettanto intimo e sacro. La masturbazione e il liquido interiore. L’intimità di un corpo mostrato al mondo, sacrificando il pudore per la libertà di espressione.

E così che fine fanno il pudore e la così sacra religione?

E qual è il compito dell’arte contemporanea?

Fotografare un crocifisso immerso nell’urina o una masturbazione ben riuscita e pubblicizzarli su un disco o su una maglietta da comprare?

Libertà di espressione, soldi, religione e pudore possono stare tutti insieme nello stesso barattolo?

 

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Guerrilla Girls. Le artiste gorilla.

Guerrilla Girls, New York City

Ragazze gorilla, ragazze guerrilla. Guerrilla Girls. Artiste femministe attiviste. La parola guerrilla si confonde con gorilla perché portano delle enormi maschere a forma di scimmia e non se le tolgono mai. Nemmeno per le interviste.

È così che stabiliscono la loro immagine: durante un’intervista. Si presentano ‘siamo le Guerrilla’ e un giornalista inglese sbaglia a fare lo spelling. Scrive Gorilla. Loro non si offendono perché dei faccioni da scimmioni cattivi e oscuri si adattano bene ai loro intenti.

Fanno arte. Ma non è pittura e non è scrittura e non è architettura o progettistica. Sembra più pubblicità. Arte fatta di grandi manifesti e volantini e cartelloni che dicono cose e pensano cose e fanno pensare a cose. A cosa… a proteggere e a spingere fuori la propria identità e il proprio genere, il proprio colore della pelle. L’identità che mascherano dietro a una faccia da scimmia perché tutti devono essere uguali a tutti, non la mascherano al mondo intero nella loro produzione artistica quando cominciano negli anni ’80 a tappezzare New York di volantini e a scrivere che tutti devono essere uguali a tutti, anche nell’arte.

Si riuniscono come fossero un ghetto al femminile a partire dall’85. Il MoMA l’anno prima allestisce una mostra: an international survey of recent painting and sculpture (1984). MoMa. New York. Arte contemporanea. Arte nuova nuovissima nella città nuova nuovissima dove le cose nuove nuovissime arrivano per prime primissime, ma non del tutto. La mostra ospita 169 artisti in totale. Un totale squilibrato perché tra questi compaiono solo 13 donne. 156 contro 13. È da qui che le scimmie guerriere si riuniscono contro musei e gallerie di New York per poi espandersi ovunque per il non spazio o poco spazio dato all’interno di essi. Studiano statistiche e il loro studio accurato le porta a constatare che la donna nell’arte viene messa da parte un po’ troppo rispetto all’uomo. Non è una constatazione sbalorditiva né originale né innovativa, eppure innovativamente iniziano a renderlo noto cospargendo la città di pensieri polemici, proteste e parole, riproduzioni di quadri famosi rielaborati e frasi su frasi.

Guerrilla Girls, we seel white bread, 1987

Come l’odalisca di Ingres. La longilinea e liscia e bella odalisca di Ingres.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La Grande Odalisca, 1814, Museo del Louvre

Cosa c’entra con un gorilla pelosissimo?

Guerrilla Girls Talk Back, 1989, Tate Modern

C’entra quando le guerrilla la mettono su un manifesto tutto giallo e le piazzano sulla faccia il mascherone di uno scimmione che domanda:

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Potrebbe essere. Una donna nuda e ben in posa è sempre bella. Vestita, svestita, castana, bionda, rozza, grossa, lunga. Va comunque più o meno bene. Ma una donna che arriva con un quadro sotto al braccio e dice ‘questo l’ho fatto io’ forse un po’ meno.

Do women have to be naked to get into the Met. Museum?

Le Guerrilla tirano fuori una percentuale e la scrivono sotto l’odalisca. L’85 per cento dei quadri esposti al Met ha come soggetto una donna nuda, ma solo il 5 per cento dei quadri esposti è stato dipinto da una donna. E perché? davvero solo perché le donne bamboline sono così tanto carine come manichine che non possono fare altro? Perché la virilità maschile ha divorato la fragilità femminile fin da sempre? La cruda legge del più forte contro il più debole? Forse nei tempi antichi è stato fatto uno studio accurato e ignaro in cui risultava che il cervello maschile fosse più brillante di quello femminile. O forse non esiste nessuno studio e nessun motivo ben preciso e il tutto fa pensare se sia stata la donna a tarparsi le ali da sola o l’uomo ad approfittarsene. L’uomo ad alimentare sempre di più il maschilismo e ad approfittarsene. E adesso maschilismo e femminismo finiscono per divorarsi l’un l’altro. Un mostro che crea un altro mostro?

Guerrilla Girls, I am not a Feminist, 2009

Chissà se già fin dall’inizio dei tempi era così. In fondo all’inizio, inizio del mondo, c’eravamo già entrambi. Un uomo e una donna. Una scimmia e un’altra scimmia.

 

 

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Intervista immaginaria al Nano Morgante.

Come ti chiami?

Morgante

Segni particolari?

Sono grassotto perché non ho abbastanza lunghezza per disporre la ciccia in tutto il corpo. Sono alto molto poco. Sono molto basso, sono nano. Ma non sono un nano, sono il Nano. Il Nano Morgante.

“Il”?

Il Nano Morgante. Quello che a corte tutti vogliono e tutti aspettano. Quello che senza di me la festa non c’è.

E perché ti chiamano Morgante?

Perché Morgante è il gigante nel poema di Luigi Pulci. È una presa in giro e così li lascio fare e mi ci faccio chiamare. Perché sono un giullare e il mio mestiere è far divertire gli altri e il mio corpo sembra facilitarne il divertimento. Ma a far divertire mi diverto anche io, molto più degli altri.

Come ti chiami veramente?

Braccio di Bartolo.

Non sembri toscano dall’accento…

Sono bolognese. Originario di Castel del Rio.
Poi sono venuto a Firenze e a corte e insieme a me ho trovato altri quattro nani. Cinque nani a corte. Cosimo I e i cinque nani. Ma nessuno era come me. Io ero il re dei nani, tutti mi volevano. Ero il preferito del Duca.
Tutti m’imploravano per intrattenere e intrattenere, ancora di più e sempre di più. Il mio duca non mi lasciava mai. Mi ha riempito di vizi e di ritratti. Tutti mi hanno ritratto, spesso nudo.

Anche Giorgio Vasari parla di te. Lo sapevi? Sai leggere?

Non so leggere, ma sono un cacciatore pazzesco. E modello.
Cosa dice Vasari? L’ho conosciuto perché è venuto a corte.
Ha la puzza sotto al naso, il mio duca lo invitò da noi e lui rifiutò l’invito. Fu così che i rapporti si interruppero.

Dice “…il Duca, il quale ha fatto fare al medesimo di marmo la statua di Morgante nano, ignuda, la quale è tanto bella e così simile al vero riuscita, che forse non è mai stato veduto altro mostro così ben fatto, ne’ condotto con tanta diligenza simile al naturale…”

L’avevo detto che ha la puzza sotto al naso! Io non sono un mostro. Sono poco alto e molto basso. Poco e molto. Non vuol dire essere un mostro. Se fossi davvero un mostro nessuno avrebbe piacere a ritrarmi con le natiche all’aria. E hai visto invece per quanti nudi mi è toccato posare?
Hai visto i giardini di Boboli? Hai visto la fontana del Bacchino lì dentro? Come sono bello tutto bianco e tutto in marmo in sella ad una tartaruga gigante. Leggiadro e con lo sguardo intelligente. Non sono un buffone. Faccio il buffone, ma non sono un buffone.
Sono anche agli Uffizi adesso.

La fontana del Bacchino, 1560, Valerio Cioli, Giardino di Boboli, Firenze

Si è vero…cioè non tu, Agnolo Bronzino è agli Uffizi.

Io! Io sono agli Uffizi! Non c’è mica la faccia del Bronzino lì dentro, sono io a fare la cornice! Grazie al mio duca innanzitutto e poi grazie al Bronzino. Ma sono io a mettere faccia e chiappe.

Faccia e chiappe e farfalle?

Esatto. Il Bronzino pensò fosse meglio dipingere una farfalla svolazzante sul mio fallo e il pubblico non era pronto. Non è come oggi. Anche se ancora oggi quando vado in giro la gente si volta a guardarmi. Forse rispecchio ancora i loro canoni di bellezza. Comunque sia non era come oggi. Una Venere nuda era un conto, ma un nano nudo un po’ meno. Forse il maschio nudo in generale un po’ meno, un po’ zero.

Nano Morgante, 1552, Agnolo Bronzino, Galleria degli Uffizi, Firenze

Eppure il Bronzino ti ha ritratto persino da entrambi i lati. Fronte e retro.

Sì. Dicono lo abbia fatto per dimostrare quanto fosse bravo in pittura. Quanto la pittura fosse migliore della scultura, perché attraverso la pittura puoi raccontare scene diverse e tutte queste cose qua, mentre nella scultura questo non lo puoi fare. Ma la realtà è che mi ha dipinto nudo e fronte retro perché sono molto troppo bello, sia davanti che di dietro.

Infatti nel quadro sono dipinte due scene diverse, giusto?

Giusto. Nella prima sto cacciando e nella seconda ho finito la caccia. Sono un cacciatore. Un buffone, giullare, quadro-modello e cacciatore. A corte facevo tutto quello che mi veniva richiesto. Qualunque cosa Cosimo volesse che io fossi la diventavo. Voleva che fossi un bravo cacciatore e sono diventato un bravo cacciatore. Così sul lato frontale del dipinto tengo in mano la ghiandaia e sul retro tengo in mano la ghiandaia stecchita.

Sei molto sicuro di te. È proprio vero che non ti vergogni di niente.

Di cosa dovrei vergognarmi? Non vergognarmi di niente è stata la mia fortuna. Nell’Ottocento nel quadro del Bronzino mi hanno trasformato perfino nel dio Bacco. Se fossi stato un insicuro nessuno lo avrebbe fatto. Hanno messo un perizoma di foglie e uva a soffocare la mia farfalla e non ho più uccelli svolazzanti intorno, ma del vino e una ghirlanda trionfante in testa.

Adesso però sei tornato alle origini nel quadro, giusto?

Si, pochi anni fa mi hanno restaurato. Forse progredendo si sono resi conto che un nano nudo non avrebbe scandalizzato nessuno.

Quale dei due preferisci? Essere bacco o un cacciatore?

Vanno bene entrambi. Mi rappresentano entrambi. Non mi sono mai vergognato, non mi vergogno di niente, ero il preferito proprio per questo. L’imbarazzo, la timidezza, la debolezza e l’insicurezza non sono mai ammesse a corte. Impudente e arguto.
Sono molto basso, sarebbe ancora più facile schiacciarmi se non fossi impudente e arguto.

 

 

 

 

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